Ditelo con i fiori. Era quanto immaginò Alexandre Dumas per connotare il ritratto di una sua giovanile conquista, Marie Duplessis, protagonista del suo romanzo di maggior successo, La Dame aux camélias: «Ogni volta che si recitava una nuova commedia, si poteva essere sicuri di incontrarla con tre cose che non la lasciavano mai, e che occupavano sempre il parapetto del suo palco di prima fila: il binocolo, un sacchetto di dolci e un mazzo di camelie. Per venticinque giorni del mese le camelie erano bianche, per cinque erano rosse; non si è mai conosciuta la ragione di questo cambiamento di colore.» Cortigiana dal fascino irresistibile, ostentando questo fiore negava ciò che l’antico mestiere di lorette invece denunciava: poiché la camelia, carnoso fiore di origine orientale, è simbolo di sacrificio, pegno di amore eterno come di una vita spezzata, quando appassisce, e petali e calice si staccano insieme dalla pianta.
Era quanto replicarono, pochi anni più tardi, Giuseppe Verdi con Francesco Maria Piave, quando alla protagonista della Traviata imposero il nome di Violetta, una piccola viola: il fiore del ricordo, «dove il dardo di Cupido era caduto» – ammoniva Oberon, re degli elfi nello shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate – «purpureo per la ferita d’amore ricevuta»; il fiore del pensiero, «sì presto estinto fiore», nell’idillio belliniano della Sonnambula; il fiore di un inesorabile memento mori, per il prevalere screziato di un colore che la liturgia cattolica associa alla Passione.
È l’idea da cui è partito Salvo Piro, che per mettere in scena la sua Traviata nella lussureggiante cornice di Villa Margherita a Trapani – secondo titolo del 74° Luglio Musicale – ha voluto valorizzarne l’aspetto forse più seducente, i ficus giganti che incorniciano la scena e la cingono, anche nel backstage, messo a nudo per precipitare l’azione in un habitat naturale, idilliaco, onirico. Nella scena di Danilo Coppola, infatti, troneggia solo un divano Chesterfield: verde, ça va sans dire, e sul quale, anzi, nel corso dell’opera germoglia e si radica l’edera, tutta una vegetazione che dal proscenio lentamente conquista il palcoscenico. È una sorta di ritorno alle origini, allo stato di natura: così, sin dal Preludio, dietro un velario traslucido compare il doppio di Violetta, una ragazzina la cui innocenza ricorda forse quell’Alphonsine Plessis, sradicata dalla Normandia e venduta agli zingari, in vista di un futuro da cortigiana a Parigi. La natura è madre lontana ma sempre fortemente presente, desiderio di purezza inattingibile: e si materializza quale autentico, formidabile coup de théâtre quando, nel Finale primo, si accendono i riflettori sugli alberi del giardino per evocare la potenza di «quell’amor ch’è palpito | dell’universo intero», vagheggiato sin da quando, «fanciulla», lo immaginava quale «dolcissimo | signor dell’avvenire». Per questo il «popoloso deserto» di Parigi isola e blocca i personaggi su un cerchio al proscenio, sottolineandone l’irredimibile solitudine, mentre il coro viene confinato dietro il velario, che suggestivi effetti di luce distanziano attraverso la griglia dell’arco scenico, pedoni immobili di una partita a scacchi col destino; per questo la «casa di campagna» diventa un tentativo di fuga illustrato da un fondale alla Margherita Palli, con vista dall’alto di un giardino che vorrebbe essere invaso dal verde ma che diventa, nella parte destra del quadro, geometrico disegno di un acciottolato arido e pietroso.
È una Traviata «contemporanea e senza orpelli», quella voluta da Piro, messa in scena con grande essenzialità di tratti, con una recitazione asciutta ed efficace – clamoroso è lo schiaffo con cui Germont sveglia Alfredo dal «sogno seduttore», prima della sua celeberrima paternale – e che colpisce perché mira al cuore di una società superficiale e amorfa, ieri come oggi. Da qui gli ironici selfie durante le feste, lo scambio di messaggi per l’invito da Flora, la meccanicità a scatti di personaggi anonimi, maschere coperte di cerone bianco che uniformano i volti di tutti i personaggi, nel Finale secondo, a eccezione di Violetta: unica voce fuori dal coro, tanto che ricorre alla dimensione intima e dolente della scrittura durante la redazione della lettera.
Un racconto interiorizzato ma non privo d’impatto teatrale, dunque, che sarebbe stato amplificato da una direzione meno letargica di quella assicurata da Simone Veccia: una Traviata come questa avrebbe dovuto essere governata dalla bacchetta, mentre qui si aveva l’impressione che l’orchestra – pur rifinita e puntuale – procedesse col pilota automatico. Uniformità imperturbabile dei tempi, assenza di colori e di idee, una lentezza, soprattutto, che spesso metteva in seria difficoltà i cantanti: non ha molto senso riaprire la seconda strofa del cantabile dell’aria di Violetta, nel Finale primo, o le – non proprio memorabili – cabalette di Alfredo e di Germont, nel secondo atto, se tutto viene scandito con metronomico, impassibile distacco, contraddicendo quel respiro panico che avrebbe dovuto animare il catartico Finale secondo.
Ne scaturisce una Traviata che la scena racconta, la musica raggela. Ed è un peccato, non solo per la convinta diligenza della compagine orchestrale, ma anche perché il cast – saggiamente assemblato a chilometro zero, o comunque non più di cento – valorizza artisti già maturi per un interessante confronto con il capolavoro verdiano. Anche il coro, preparato da Fabio Modica, come sempre s’impone per compattezza e solidità di una presenza anche scenicamente convincente, soprattutto nella scena da Flora. Tra i ruoli di fianco, si segnalano soprattutto la poderosa, importante Bervoix di Grazia Sinagra, il mercuriale, elegante Gastone di Mauro Scalone, l’umanissimo, autorevole Grenvil di Christian Barone e il bonario, spigliato d’Obigny di Filiberto Bruno, insieme con Roberta Caly (Annina), Giovanni La Commare (Douphol) e Antonio Saverino (Giuseppe).
A far la parte del leone è l’esperto Germont di Francesco Paolo Vultaggio, ormai una certezza per la solidità, la sicurezza, la fermezza di uno strumento che, se prima ha còlto i migliori esiti in Rossini e Donizetti, adesso si accosta ai grandi ruoli verdiani con una rotondità, eleganza e pienezza assolutamente ragguardevoli. L’interprete, peraltro, piega queste qualità per definire un personaggio inizialmente monolitico – e tale rimane, praticamente durante tutto il duetto – ma che progressivamente si apre alla comprensione di una dimensione, quella dell’amore assoluto di Violetta, che gli era ignota. «Di Provenza il mare, il suol» è liricamente venato di nostalgia, tutto sul fiato, fondato su un nobile senso del legato.
In crescendo Rosolino Claudio Cardile, che affronta con slancio ed entusiasmo il ruolo di Alfredo. Risolverà con lo studio alcuni attacchi non sempre precisi nell’intonazione, probabilmente dovuti a un contesto non sempre attento alle esigenze dei cantanti. L’ultimo atto lo vede finalmente a suo agio, specie nel duetto finale, affrontato con duttilità e morbidezza, dapprima nel bel cantabile di «Parigi, o cara», quindi nell’impeto focoso di «Oh mio sospiro, oh palpito». Un elemento da tenere in considerazione, in vista di futuri sviluppi.
E infine la Violetta di Maria Francesca Mazzara. Che da anni cesella il ruolo, finalmente suo, profondamente suo. Lo si vede dalla cura minuziosa di un fraseggio con cui, in maniera accorta, sbalza ogni frase, alla ricerca di un’espressività che trapela da ogni accento; dalla figura svelta, elegante, raffinata, mai sopra le righe, sempre puntuale e coinvolgente; dalla lenta, inesorabile progressione psicologica con cui affronta la parte, con salda capacità di persuasione. È giovane e bella in bianco e verde, al primo atto, che corona con un importante mi bemolle al termine di un’aria eseguita integralmente, alla ricerca del senso più profondo di quella ‘parola scenica’ così cara alla scrittura verdiana; è donna matura nello scontro con Germont, che presto si risolve in una confessione accorata, ma sempre esibendo una dignità che passa attraverso il controllo di luminose arcate melodiche («Dite alla giovine»); brilla nell’ultima festa dall’amica Flora, in uno strepitoso abito rosso Valentino, che nell’ultimo atto diventerà «l’immagine | de’ miei passati giorni», trasmessa ad Alfredo per un futuro, il suo futuro senza di lei. È una Violetta che andrà ricomponendo il suo io, sin dal Preludio dell’ultimo atto, in cui la ragazzina che era stata ritorna al proscenio, dapprima al polo opposto al suo, quindi accanto a lei, «tra quei fior» che adesso invadono la scena, s’abbarbicano sul fondale, lo illuminano, quasi lo profumano. La sua, questa volta, non è neanche una mort parfumée, alla maniera dannunziana: ma un commosso, commovente «ritorno a vivere» nell’ultima stretta con il candore dell’infanzia, nello sfolgorio della luce che officia quell’«avvenir migliore» meritato, cercato, celebrato.
Teatro Giuseppe Di Stefano – 74° Luglio Musicale Trapanese
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry Maria Francesca Mazzara
Flora Bervoix Grazia Sinagra
Annina Roberta Caly
Alfredo Germont Rosolino Claudio Cardile
Giorgio Germont Francesco Paolo Vultaggio
Gastone Mauro Scalone
Barone Douphol Giovanni La Commare
Marchese d’Obigny Filiberto Bruno
Dottor Grenvil Christian Barone
Giuseppe Antonio Saverino
Domestico di Flora Mariano Gottuso
Commissionario Alex Franzò
Orchestra e Coro dell’Ente Luglio Musicale Trapanese
Direttore Simone Veccia
Maestro del coro Fabio Modica
Regia Salvo Piro
Scene e costumi Danilo Coppola
Nuovo allestimento
Trapani, 4 agosto 2022