Il Teatro Regio di Torino ha un nuovo sovrintendente dopo il commissariamento, tanto discusso, di Rosanna Purchia, la quale, secondo alcuni, ha portato benefici per il risanamento della situazione economico-finanziaria, per altri, aperto problematiche ancora irrisolte che solo il tempo dirà se arriveranno a pesare sugli orizzonti futuri di un teatro ora nelle mani di Mathieu Jouvin, un francese che viene dal Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, dove ha ricoperto l’incarico di vice direttore generale. Ora, all’appello, manca ancora la nomina, o l’auspicabile riconferma, di un direttore artistico, che ragionevolezza vorrebbe essere individuata in Sebastian S. Schwarz, figura sicuramente autorevole, ma fino a oggi non valorizzata, se non addirittura “mortificata” rispetto ai molti meriti guadagnati sul campo in altri teatri. Per ora resta guida artistica del teatro d’opera torinese. Poi si vedrà.
Nel frattempo il Regio ripropone l’allestimento di Turandot di Puccini che Stefano Poda realizzò ad apertura del 2018. Uno spettacolo concettoso e simbolico, a partire dall’impianto scenico (le scene, i costumi e luci sono dello stesso Poda), fino a una regia e a una coreografia interessate a risolvere le proiezioni risolutorie della psiche dei personaggi, a partire dalla protagonista. Per Poda – collegandosi ai risvolti psicanalitici del libretto, sui quali si sono scritti fiumi di inchiostro, soprattutto nell’analizzare le pieghe freudiani della protagonista, la principessa di gelo, la donna che dice di non essere cosa umana e si nega all’amore per espiare la passata violenza subita da una sua ava, vendicandosi crudelmente per l’affronto subito contro ogni uomo che desideri possederla – Turandot “non esiste”. Lo affermano le maschere stesse quando invitano Calaf a rinunciare saggiamente alla gara che ha già portato innumerevoli altri pretendenti a sbagliare la soluzione degli enigmi, pena la morte; essa non è che la riverberazione della mente di Calaf, il quale la vede replicata sulla scena da molte altre donne che l’attorniano. Ecco perché Turandot, quando appare sulla scena, si confonde con i suoi doppi, come se il suo essere non sia fisico, ma solo frutto del sogno del Principe ignoto. Danzatori seminudi, onnipresenti sulla scena, accompagnano con i loro nervosi movimenti l’inconscio che si rende visibile in un turbinio di frenesia e calma, contribuendo a rendere l’intero spettacolo come la proiezione immaginaria di un uomo alla ricerca di se stesso, un sognatore sul lettino d’analisi che conoscerà il vero amore solo dopo aver assistito al suicidio di Liù: la donna vera, non immaginata, quella che col suo sacrificio gli mostrerà il lato autentico dell’amore, facendolo uscire dalle nebbie del suo inconscio. Per approdare a tutto questo, e svegliare Calaf, ci vuole un sacrificio catartico, un viaggio visuale “iniziatico” del principe ignoto che termina con l’eliminazione dalla sua mente di una donna sono immaginata (Turandot) a favore di una che, in carne e ossa come lo è Liù, morendo possa ergersi a simbolo sul come operare per compiere il passo utile a uscire dai nostri nodi interiori, superando le barriere che ci impediscono di crescere. Non si assiste ad alcun “sgelamento” di Turandot, ecco perché lo spettacolo termina sulle ultime note composte da Puccini, privando l’opera del finale di Franco Alfano. Il sipario cala sulla morte di Liù, così da rendere più pertinenti le scelte di Poda.
Sul piano visivo lo spettacolo mostra un arioso impianto scenico fisso: un grande contenitore di diafano biancore luminescente, con elementi che richiamano il mondo classico ma nella sostanza puntano all’indefinitezza più astratta, con costumi in bianco e nero e, ovviamente, rinunciando a ogni cineseria d’ordinanza. Ed ecco un pavimento circolare rotante con figure geometriche a specchio, alcuni ingressi laterali e tre porte poste al fondo della scena, dalle quali, dopo la soluzione di ogni enigma, ne appare la loro plastica realizzazione visiva, mentre dalla parete di gesso del fondale sono visibili sagome bianche: le vittime di Turandot murate vive dopo essere state imbalsamate da Ping, Pang e Pong, veri ministri del boia quando, nel terzetto che precede la scena degli enigmi, ricordano la lunga lista di prìncipi sacrificati e ne mummificano i cadaveri distesi su lettighe.
Sul piano musicale, la direzione del maestro spagnolo Jordi Bernàcer accenta le componenti novecentesche della partitura, i suoi richiami a Debussy e Stravinskij, con timbriche e colori adatti a una direzione che persegue un’asciutta configurazione musicale ottenuta attraverso tempi talvolta lenti e una concretezza espressiva curata ma non sempre attenta al dialogo col palcoscenico. Una menzione di merito va al Coro del Teatro Regio, istruito da Andrea Secchi, davvero magnifico, così come ottimo quello di voci bianche guidato da Claudio Fenoglio.
Nel cast non fatica a imporsi su tutti il lirismo purissimo di Giuliana Gianfaldoni, che inanella, a partire dalla nota che conclude la frase “Perché un dì nella reggia m’hai sorriso”, filati incantevoli. Eppure la voce non si espande come dovrebbe; il suo lirismo è più belcantistico che pucciniano e i filati appunto, per quanto magnifici, non bastano a colorare la voce di quella morbidezza capace di donare alla parte la giusta dose di sentimento, chiusa come è nella cornice di una esecuzione puntuale ma poco intensa ed emotivamente pregnante.
Voce tagliente e giusta per la parte è quella del soprano svedese Ingela Brimberg, una Turandot di portata vocale wagneriana. Eppure la voce non è più fresca e in acuto si squinterna ingranando la marcia di un pericolante vibrato. Il tenore georgiano Mikheil Sheshaberidze è un Calaf convenzionale ed espressivamente inerte. La voce per di più, non sfogando in acuto con lo squillo e l’espansione richieste, risulta talvolta costretta in gola. Lo stesso “Nessun dorma” passa inosservato e l’applauso non scatta, come invece sempre capita, dopo l’atteso “Vincerò”. Tutte le lodi possibili merita invece Michele Pertusi, un Timur perfetto, accorato nell’espressione, morbido e in possesso di una linea di canto nobile e sorvegliata.
Ottimo il terzetto Ping, Pang, Pong formato da Simone Del Savio, Manuel Pierattelli e Alessandro Lanzi, così come eccellente il Mandarino di Adolfo Corrado e l’imperatore Altoum di Nicola Pamio.
Completano la locandina Sabino Gaita (Il principe di Persia), Pierina Trivero (Prima ancella), Manuela Giacomini (Seconda ancella) e la danzatrice Nicoletta Cabassi come Pu-Tin-Pao.
Una serata accolta, alla prima, con convinti applausi finali da parte un pubblico numeroso. Per fortuna, a Torino, il teatro d’opera, nonostante pandemia e crisi, sembra non perdere la speranza di tornare agli standard qualitativi dei suoi tempi migliori. Diamogli il tempo di rinascere.
Teatro Regio Torino – Stagione d’opera e di balletto 2022
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e quattro quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Ingela Brimberg
Calaf Mikheil Sheshaberidze
Liù Giuliana Gianfaldoni
Timur Michele Pertusi
Altoum Nicola Pamio
Ping Simone Del Savio
Pang Manuel Pierattelli
Pong Alessandro Lanzi
Un mandarino Adolfo Corrado
Il principe di Persia Sabino Gaita
Prima ancella Pierina Trivero
Seconda ancella Manuela Giacomini
Pu-Tin-Pao (danzatrice) Nicoletta Cabassi
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche Teatro Regio Torino
Direttore Jordi Bernàcer
Maestro del coro Andrea Secchi
Maestro del Coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia, scene, costumi, coreografia e luci Stefano Poda
Regista collaboratore Paolo Giani Cei
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 22 aprile 2022