Norma è fra le opere per le quali è imprescindibile la presenza di una grande protagonista. Il nostro sentire, legato al ricordo di interpreti di riferimento leggendarie, ha determinato, dopo Maria Callas, il difficile e talvolta tortuoso percorso che ha portato a trovare cantanti che sapessero condensare il carattere enciclopedico di un personaggio tramite il quale Vincenzo Bellini tocca la corda del tragico colto nell’espressività ieratica della sacerdotessa, nel suo fraseggio declamatorio scolpito, alto e incisivo, ma anche tramite la lunare astrazione di una melodia sublime, pronta a cogliere la dimensione di un canto più scopertamente lirico ed elegiaco. Il tutto coprendo una tessitura che spazia dal soprano al contralto. Per rispondere alla vasta gamma di chiaroscuri, atti a cogliere i trapassi psicologici del personaggio, bisogna appunto possedere una gamma di possibilità vocali e interpretative tali da condizionare l’interprete mettendola dinanzi all’impossibilità di risolverne al meglio tutte le richieste. Questo perché la parte di Norma pone quasi sempre la cantante che l’affronta dinanzi a delle scelte: affidarsi a una concezione prettamente tragico-drammatica, che in alcuni casi può rendere meno efficace la purezza della linea vocale, oppure puntare su una connotazione vocale più belcantistica che annovera molti esempi, ultimo fra i quali, direi estremizzato, è quello di Cecilia Bartoli, che si è addirittura spinta oltre, consegnando una visione “barocchizzata” del personaggio attraverso un fraseggio che al respiro tragico antepone il “sospiro” tragico, con un canto che si fa sottile, asciutto, a tratti nervoso, mai aulico perché affettuosamente elegiaco.
Gilda Fiume, ragguardevole protagonista di questa edizione torinese, si inserisce nel filone belcantistico e si mostra tecnicamente pronta, prima ancora che sul versante interpretativo, a seguire la via di una liricizzazione che si ispira al modello di Mariella Devia, della quale la cantante salernitana è allieva, e in qualche modo anche alle molte interpreti di Norma italiane di tale estrazione (come lo fu Renata Scotto). È evidente che non sono le grandi accensioni declamatorie a interessarla, seppure risolte con intelligente dosaggio dei propri mezzi. Così il recitativo d’ingresso, o i momenti di furore, quando la sacerdotessa è assalita da sentimenti di gelosia e vendetta e il vigore vocale dello sdegno si fa prorompente, vengono risolti con intelligente cura, con una veemenza commisurata alle proprie risorse, senza ombre di forzature o eccessi in passi come “Oh non tremare o perfido” o “I romani a cento a cento”. Invece, quando il lirismo di “Casta diva”, di “Teneri figli” o del finale dell’opera (al suo “Deh! non volervi vittime”, per essere perfetto, manca un’oncia di partecipazione emotiva in più, seppure sia intonato a regola d’arte) la chiama a sfoggiare un canto di impronta madreperlacea, ecco che la vocalità di Gilda Fiume avvolge la melodia belliniana in un’aulica sublimità, cogliendone l’essenza tragica attraverso la limpidezza della linea. Il canto è così pulito e morbido che il pubblico la accoglie con un lungo applauso dopo un “Casta diva” intonato con corretta e levigata sospensione lirica. Inoltre, risolve le agilità dell’allegro “Ah! bello a me ritorna” con fluidità e ne esegue anche il da capo, con tanto di variazioni, mostrando un acrobatismo vocale di tutto rispetto, ereditato dalle opere che più fanno parte del suo comune repertorio, fra cui La sonnambula e Lucia di Lammermoor, senza dimenticare La traviata, quest’ultima affrontata l’anno passato al Regio. Il risultato complessivo della sua prestazione la conferma Norma capace di segnalarsi fra le migliori oggi in circolazione, alla quale manca forse ancora quella consapevolezza, non espressiva bensì scenica, tale da renderla interprete più credibile. Come lo è, invece, il mezzosoprano Annalisa Stroppa, che della parte di Adalgisa è oggi interprete di riferimento, sia per l’espressività volitiva ma stilisticamente sorvegliata, sia per il bel timbro vocale e il buon controllo del legato al momento di intonare un toccante “Sola, furtiva al tempio”, o quando, prima ancora, nel suo arioso d’ingresso, si mostra rifinita nel dare il giusto peso alla parola. Qualche suono acuto estremo un po’ fibroso non guasta certo l’indubbio valore della sua prova.
Dmitry Korchak, tenore di estrazione belcantistica, è un Pollione per nulla scontato, che evita l’abuso di centri scuri e massicci. Se non fosse per il timbro un po’ sugheroso, l’affermato tenore russo cerca di donare al canto togato che contraddistingue la parte finezze e inflessioni vocali che si rifanno ad un’idea di tenore di forza configurato secondo lo stile tardo settecentesco, di impronta neoclassica, quindi conformato a un canto liberato da ogni screziatura verista che, all’opposto, ci riporta alla mente la prassi esecutiva adottata a partire dal Novecento. Per di più, anche lui affronta il ruolo integralmente, eseguendo il da capo della cabaletta “Me protegge, me difende” con variazioni, senza far mancare qua e là ardite puntature acute.
Fabrizio Beggi risponde più che bene alle esigenze di una scrittura da basso cantante come quella di Oroveso, senza calcare troppo il pedale sul fraseggio solenne e maestoso di un personaggio sacerdotale, anche se alla linea non guasterebbe talvolta più morbidezza nel giro dei suoni. Il cast si completa con le prove di Joan Folqué (Flavio) e Minji Kim (Clotilde).
Il significativo risultato di questa Norma torinese si deve anche alla bacchetta di Francesco Lanzillotta, che non solo sceglie la via, saggia e coraggiosa, dell’edizione integrale, ma è anche bacchetta attenta nel trovare il giusto equilibrio fra tensione drammatica e momenti lirici. In questi ultimi, allarga i tempi e accompagna le voci con sensibilità e ottimo respiro, facendo sgorgare la melodia, ma garantisce anche una concretezza teatrale sempre attenta al dettato espressivo e a un fraseggio orchestrale curato e rifinito nei dettagli per dare quindi evidenza sia al momento scenico che alla sostanza sentimentale.
Resta da riferire dello spettacolo, con la regia senza grandi colpi d’ala di Lorenzo Amato, che si avvale però del prezioso impianto scenico di Ezio Frigerio e dei costumi di Franca Squarciapino; una struttura fissa che, ai lati della scena, mostra rovine abbandonate dove la natura si è impossessata e ha avvolto ogni cosa di un ambiente boschivo freddo e impenetrabile, con fondali che mostrano una foresta fittissima, con rami di alberi che paiono tentacoli dai quali si fa strada la luce o muri di pietra di una caverna di forte evidenza monumentale. Una dimensione che richiama suggestioni visive che fanno pensare a mondi fantastici, legati alla narrativa fantasy, temporalmente decontestualizzati ma ascrivibili a un romanticismo naturalistico pre-gotico, buio, attraversato da bagliori di luce e fuoco. Uno spettacolo e una esecuzione musicale giustamente premiati da un vibrante e meritato successo.
Teatro Regio – Stagione d’opera e di balletto 2022
NORMA
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
dalla tragedia Norma ou L’Infanticide
di Louis-Alexandre Soumet
Musica di Vincenzo Bellini
Norma Gilda Fiume
Pollione Dmitry Korchak
Oroveso Fabrizio Beggi
Adalgisa Annalisa Stroppa
Flavio Joan Folqué
Clotilde Minji Kim
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Lorenzo Amato
Scene Ezio Frigerio
Costumi Franca Squarciapino
Luci Vincenzo Raponi
Video Sergio Metalli
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Allestimento Teatro San Carlo di Napoli
Torino, 12 marzo 2022