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Torino, Teatro Regio – Don Giovanni (direttore Riccardo Muti)

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Con il nuovo allestimento di Don Giovanni di Mozart diretto da Riccardo Muti il Teatro Regio di Torino ha riaperto dopo mesi di chiusura necessari al rinnovo e alla messa in sicurezza del palcoscenico. Serata, come prevedibile, di grande festa, gremitissima di un pubblico che ha radunato tutta la Torino “bene”, pronto a godersi il nuovo allestimento firmato da Chiara Muti, con scene di Alessandro Camera e costumi di Tommaso Lagattolla assai ben curati.

La visione scenico-registica riflette, almeno in parte, quelle che sono le fondamenta che irradiano di luce sempre mascherata dall’ombra e da una cappa che sovrasta il mito del male, del seduttore che ha superato il vitalismo che lo contraddistingue, così come ogni idea di redenzione, per divenire archetipo di un mondo che lui stesso determina e regola col suo male. Nessun personaggio può vivere di vita propria, se non guidato come fosse un manichino mosso dall’eroe che gli da vita. Ecco perché lo spettacolo, ricco di suggestioni strehleriane, come fondali illuminati, silhouette e ombre inquiete, parte da un mondo che, ad apertura di sipario, mostra la facciata di un palazzo nobiliare in rovina, rovesciato a terra e diviso in pezzi, con botole dalle quali entrano ed escono i personaggi, o sopra il quale camminano lungo le linee sghembe di questa struttura incenerita e distrutta. La sezione centrale della scena è girevole, mentre velari mostrano in trasparenza altre linee architettoniche di un mondo che non c’è più, quello che, dopo la sua morte, Don Giovanni ha lasciato a brandelli. È il pianeta del male, notturno e grigio, all’interno del quale il protagonista si erge a simbolo di un universo di seduzione del quale muove ogni filo, e anche quando nel lugubre ritrovo delle maschere intona ipocritamente l’idea di libertà (“Viva la libertà”) si incorona come fosse un monarca assoluto. Tutti diventano fantocci in mano al suo agire seduttivo. Ecco perché i personaggi non sono altro che satelliti umani che non avrebbero vita se non per lui, divenendo esseri persi nel nulla, ancorati ai costumi che li rendono personaggi senza corpo, fragili fili di esistenze noiose e prevedibili. Ecco perché ci appaiono all’inizio, come alla fine dell’opera, vicino ai costumi, appesi a grucce sospese, che prima indossano e dai quali poi si spogliano durante la morale finale dell’opera, come a voler dimostrare di non essere appunto altro che burattini dinanzi all’unica guida in grado di dar loro senso, quella di Don Giovanni. La stessa uccisione del Commendatore diviene come riflesso di una coscienza impunibile e impunita, come se la vittima fosse la coscienza pulita, quella che Chiara Muti chiama “l’ombra giudicante di quella luce che il Dissoluto va rinnegando: nel duello che li interpone”. Così che Don Giovanni sembra lottare con se stesso, perché il Commendatore è già morto quando entra in scena, attorniato da donne vestite in nero, simili a parche di un destino di morte che si è già compiuto a inizio d’opera. Anche il cimitero, che appare dopo che la pedana del palazzo rovesciato è girata su se stessa, non è altro che sede di fantocci mandati al macero, vittime di un destino che li condanna alla morte e all’anonimato.
A questo spettacolo ricco di suggestioni visive (e ce ne sono davvero tante, forse troppe, come la sovrappopolata sfilata di tutti i tipi di donne sedotte da Don Giovanni durante l’aria del catalogo) ma dalle linee mortifere, senza ombra di redenzione per nessuno, né per i personaggi-burattini che gravitano intorno al seduttore che li rende vivi, né per l’eroe condannato per aver impenitentemente perseguito il male ergendosi a simbolo di questo mondo già morto ad apertura di sipario, corrisponde un sofisticato e ricercato gioco di luci e ombre, di nebbie fumanti che avvolgono ambienti sbrecciati che risorgono dalla ceneri del male per raccontarci la storia di un mito ormai avvolto nelle tenebre del tempo.

A questa visione così scura dell’opera si affianca la superba visione che il Maestro Riccardo Muti dona a una partitura che ha diretto diverse volte e conosce come pochi direttori al mondo. Il lavoro di cesello sui recitativi e sulle trame orchestrali non si riflette solo sul suono sempre terso e pulito di un’orchestra, quella del Regio, che suona in maniera superlativa, ma anche sulla visione di un Mozart finalmente liberato da quelle scheletriche modanature artritiche che fanno parte del Mozart oggi ritenuto “alla moda”. Ci si è così abituati a sentirlo eseguito male da essersi quasi convinti che la strada sbagliata sia quella giusta. Muti, invece, ci riconduce sulla retta via, quella del suono pieno ma leggero, ricco di una luce che ha perso forse quello che era il vitalismo sfrenato di un tempo, messo in netto contrasto con le linee demoniache che lo rendono tragico (lo si avverte fin dall’Ouverture), per assumere un suono ancora più metafisico, iconico, nel perfetto equilibrio formale. Innumerevoli sono i momenti magici, come il finale primo e il sestetto del secondo atto. Muti costruisce i recitativi con vitalità e saggezza espressiva senza pari, accompagna e sostiene i cantanti superbamente (il soffio orchestrale che sostiene la ripresa dell’aria di Don Ottavio, “Dalla sua pace”, ne è una prova, fra molte), ma soprattutto regala una lettura di Don Giovanni che negli anni si è fatta più consapevole di un peso che regola e sovrasta il destino al quale è chiamato il protagonista. Sarebbe inopportuno scrivere che il grande direttore, che qui si conferma il maggior interprete mozartiano vivente, abbia perso il nerbo e il gusto dei contrasti che erano tipici della sua visione dell’opera eseguita in anni passati. Piuttosto, alcuni tempi più rilassati, inseriti all’interno di un arcobaleno di colori, morbidezze e fraseggi orchestrali avvolgenti, donano alla luce apollinea di un suono sempre lindo e ricercato, un velo d’ombra che rende ancor più meditato un percorso sonoro di ineguagliabile e meditata profondità.

Ad avvantaggiarsene sono anche i cantanti, seguiti passo a passo, senza che nulla sia affidato al caso. Tutti sono bravi, a cominciare dal mirabile Don Giovanni di Luca Micheletti, sicuramente oggi interprete di riferimento per questo ruolo, sia per l’accurata componente attoriale come per la voce bella, timbrata e ben proiettata, sempre presente dinanzi alle esigenze della parte, con un “Brindisi” ben risolto e una “Serenata” intonata a mezza voce, con classe sopraffina. Gli sta a fianco il Leporello altrettanto perfetto di Alessandro Luongo, anche lui sempre pronto a rendere ricco e variegato un fraseggio attento alla parola. Splendido il canto morbido e soffice di Giovanni Sala, un Don Ottavio che non saprei immaginare migliore (con un “Dalla sua pace” sostenuto come si è detto in orchestra da Muti con sognante filigranatura sonora), così come eccellente il Masetto fresco e giovanile di Leon Košavić.
Buono l’apporto della sezione femminile del cast, non solo per la resa vocale, ma in particolare per la chiara differenziazione espressiva che rende ciascuna delle interpreti ritratti umani ben centrati. Ed ecco la Donna Anna algida di Jacquelyn Wagner, la cui voce lirica, irradiata di luce senza calore, è riflesso della freddezza, del distacco stesso un po’ ipocrita che è tipico del personaggio, contrapposto alla sovreccitazione tutta nervi a fior di pelle con la quale Mariangela Sicilia delinea una Donna Elvira volitiva e cerebrale oltre che assai ben cantata. Infine la Zerlina di Francesca Di Sauro, davvero brava oltre che bella, perché non fragile ed innocente donna sedotta e strappata da Don Giovanni (che l’avvolge alla fine del celebre duetto “Là ci darem la mano” nel suo mantello come fosse un Mefistofele) dalle braccia del suo giovane sposo, bensì perfettamente consapevole della sua carnale carica sensuale, quindi pronta a essere sedotta. Infine Il Commendatore di Riccardo Zanellato, misurato e non inopportunamente cavernoso nell’emissione, come nella voce.

Tutti i personaggi sono pronti a subire gli effetti dell’agire di Don Giovanni, l’unico che, libero da ogni schema, ha sfidato l’eternità votandosi al male. E in questo spettacolo scuro e sombre, dove sulla scena le ombre e il buio prevalgono sulla luce, la musica, grazie al genio di Muti, diviene il collante espressivo di una realtà che si è consumata nella ricerca di quel brivido di eternità al quale il solo Don Giovanni è destinato, salvo poi attendere la sua punizione, solo sulla scena, seduto su una sedia come fosse in attesa di un giudizio che arriverà ma mai scalfirà il suo inappagabile desiderio di perdizione e di anelito verso quel male che la direzione di Muti ci fa comprendere più che mai nell’ergersi di Don Giovanni a mito di una vita vissuta con la regola del disordine che genera energia; quella energia maligna che, nonostante venga punita, diviene imperitura.

Teatro Regio Torino – Stagione 2022
DON GIOVANNI
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart

Don Giovanni Luca Micheletti
Donna Anna Jacquelyn Wagner
Donna Elvira Mariangela Sicilia
Don Ottavio Giovanni Sala
Leporello Alessandro Luongo
Zerlina Francesca Di Sauro
Masetto Leon Košavić
Il Commendatore Riccardo Zanellato

Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino
Direttore Riccardo Muti
Maestro del coro Andrea Secchi

Maestro al fortepiano Alessandro Benigni
Regia Chiara Muti
Scene Alessandro Camera
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Vincent Longuemare
Assistente alla regia Paolo Vettori
Assistente alle scene Andrea Gregori
Assistente ai costumi Francesco Ceo
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone

Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
in coproduzione con Teatro Massimo di Palermo
Torino, 18 novembre 2022

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