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Torino, Regio Opera Festival 2022 – Don Checco

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L’opera buffa Don Checco di Nicola De Giosa, su libretto di Almerindo Spadetta, ha potuto finalmente andare in scena a Torino, nel Cortile di Palazzo Arsenale, per il Regio Opera Festival 2022. Alla prima, saltata per pioggia, è seguita una replica interrotta a metà del secondo atto per lo stesso motivo; la terza delle recite in programma si è ascoltata senza intoppi metereologici, non privando il pubblico di uno spettacolo, proposto nel nuovo allestimento firmato dalla regia di Mariano Bauduin, davvero godibile, confermando nell’autore della musica la volontà di percorrere, con rinnovati intendimenti, le strade ormai declinanti dell’opera buffa del primo Ottocento: quella che, dopo la grande stagione rossiniana e donizettiana, segnava comunque il permanere sulle scene di un genere memore di una gloriosa tradizione passata, ma desideroso di aprirsi a nuovi orizzonti.

Con Don Checco sembrava si rinverdisse l’opera buffa di Scuola napoletana; il successo arriso alla prima partenopea del 1850, al Teatro Nuovo, generò una serie ininterrotta di repliche e, l’anno successivo, approdò addirittura sul palcoscenico del San Carlo, dove si cominciò a proporla godendo dei favori del re Ferdinando II di Borbone, il quale pare si divertisse un mondo ogni qual volta la si rappresentava. Dopo una lunga stagione di successi, in Italia come all’estero, seguì un lungo silenzio, fino alle prime riprese in tempi moderni a Bari, Napoli e Martina Franca di una decina d’anno or sono. Di De Giosa, compositore barese vissuto fra il 1819 e il 1885, si ricorda anche l’attività di direttore d’orchestra all’Opera del Cairo al tempo in cui Giuseppe Verdi compose Aida per celebrare l’apertura del Canale di Suez. Avrebbe voluto dirigere lui la prima assoluta se Verdi stesso, per passati dissapori, non si fosse opposto preferendogli un’altra bacchetta.

L’ascolto di Don Checco rivela, come ben delineato da Marco Leo nel suo dotto saggio sul programma di sala, come l’opera buffa, più che morire o affievolirsi, uscisse “dall’orbita degli interessi dei compositori più celebri e degli spettatori più esigenti, per divenire una sorta di prodotto di consumo destinato a un pubblico dai gusti più popolari, che la avrebbe abbandonata solo in seguito al successo dell’operetta”. La partitura raccoglie tutti i più scontati ingredienti della tradizione buffa ottocentesca, con smaccate citazioni a Donizetti; diverte l’ascoltatore da cima a fondo dimostrando come il genere fosse, ancora a fine Ottocento, destinato a vivere ma a convogliare in altro: nel teatro di rivista o nella commedia musicale (l’opera alterna infatti pagine cantate a scene recitate), oppure a un certo tipo di cinema comico all’italiana (non è casuale la citazione cinematografica, voluta in questo spettacolo alla fine del primo atto, alla celebre scena degli spaghetti dal film con Totò Miseria e nobiltà ispirato all’omonima commedia di Eduardo Scarpetta). Non quindi un teatro musicale al suo epilogo, bensì pronto a indirizzarsi verso prospettive comunque consapevoli del suo retaggio passato.

Per confermarlo basta abbandonarsi al suo fragile intreccio, facendosi coinvolgere dalla vicenda dei due giovani innamorati, Carletto e Fiorina, osteggiati dal padre di lei, lo scorbutico oste Bartolaccio, fino a che l’ingarbugliata vicenda non gioca a favore della felicità della coppia grazie a una serie di vicende che coinvolgono anche Don Checco Cerifoglio, protagonista che incarna alla perfezione l’immagine dell’uomo napoletano che sa arrangiarsi celando la sua misera condizione, tirando a campare come può, accumulando debiti e vivendo d’espedienti. È proprio osservando come viene dipinto il protagonista, il cui primo interprete fu Raffaele Casaccia, erede di una dinastia di cantanti che avevano contribuito al successo dell’opera buffa napoletana interpretando ruoli dialettali all’interno dei quali inserivano una serie di personali improvvisazioni, che si comprende come quest’opera, per quanto apparentemente superficiale, fosse l’appendice di un genere che aveva fatto la sua stagione ma continuava, con la calamitante e scatenante ironia che gli era propria, a godere dei favori del pubblico, magari anche inserendo, sul filo della convenzionale tradizione passata, nuovi elementi musicali, come il tema di valzer dell’intermezzo che apre il secondo atto.

Tutti questi elementi vengono fusi mirabilmente nello spettacolo che Mariano Bauduin – allievo di Roberto De Simone e profondo conoscitore del teatro dialettale napoletano, le cui radici affondano nella Commedia dell’Arte – ha firmato rielaborando per l’occasione i dialoghi parlati (facendo perno su un’eredità teatrale dove l’improvvisazione farsesca era di casa) e permettendosi anche di aggiungere due brani musicali: il primo, a inizio del secondo atto, è una rivisitazione in veste malinconica di “Palummella, zompa e vola” (canzone tradizionale napoletana arrangiata da Bauduin stesso) per avvicinare il clima musicale dell’opera alla cultura teatral-musicale partenopea con una straniante pantomima che trasforma i personaggi in burattini; il secondo, al termine dell’opera, una tarantella conclusiva che evoca le Piedigrotte, feste musicali estive che tanta importanza ebbero per l’identità musicale e religiosa napoletana. La sua regia, un capolavoro di sorgivo dinamismo teatrale, trova contestualizzazione ideale nel contenitore scenico un po’ naïve offertogli dal bell’impianto scenico di Claudia Boasso e dagli appropriati costumi di Laura Viglione (spassosissimi quelli del coro che, nel secondo atto, fanno parodisticamente riferimento all’Aida), ispiratesi alle fotografie della vecchia Napoli nel ricreare la facciata di un palazzo con la biancheria appesa ai fili tesi fra un balcone e l’altro e la riproduzione di un portone (quello che a Napoli era la “Porta della marina del vino” dove veniva introdotto il vino in arrivo via mare) che delimita, da un lato, la facciata d’ingresso del Teatro San Carlino (storica sede di centinaia di commedie in musica) con l’ingresso, il botteghino e i manifesti appesi ai muri e, dall’altro, l’osteria di Bartolaccio, con la dispensa ricolma di ogni ben di Dio culinario affacciata sui tavoli all’aperto pronti ad accogliere gli avventori. Piccole icone di madonnine illuminate con candeline e deliziose sagome di pulcinella su un carretto non fanno altro che richiamare il segno di una verace napoletanità che la regia ben si guarda dal nascondere, anzi esalta complice un impianto scenico tanto attinente al sentire dell’opera.

La regia, richiamandosi al felice filo conduttore che lega lazzi e improvvisazioni dell’antica Commedia dell’Arte alle farse e commedie in musica o alle parodie del repertorio serio tardo ottocentesco, si sposa all’altrettanto ottima resa musicale dell’esecuzione, affidata alla fresca direzione di Francesco Ommassini, un piccolo capolavoro di ironico sorriso e luminosa teatralità, capace di dar anima, vitalità incalzante e respiro anche alle pagine più banali dell’opera, inondandole di fluida scorrevolezza, tutta in punta di penna.

Così bene guidati, l’Orchestra e il Coro del Regio, quest’ultimo allo zenit della forma (istruito da Andrea Secchi) e in bell’evidenza nell’ampia scena corale del secondo atto, sostengono una compagnia di canto nella quale giganteggia il Don Checcho di Domenico Colaianni, insostituibile in parti come questa, nella quale la tradizione del tipico “basso parlante” segue un percorso che, come indica lo stesso De Giosa riferendosi all’aria di sortita, prega “l’esecutore di questa cavatina a non far pompa di voce, anzi cantarla tanto leggermente da somigliare a prosa”. Così fa Colaianni, accompagnando sillabati e note coordinandoli al gesto e alla mimica del corpo, dominando, da fine dicitore della lingua napoletana, la verve del personaggio, che la regia vuole come una sorta di Pulcinella, senza mai scadere nell’eccesso. Nasce un personaggio perfettamente calato nello spirito della commedia, attorno al quale si ammira una compagnia di tutto rispetto. Carmine Monaco, l’altro buffo, è l’oste borbottone Bartolaccio. Il soprano Michela Antenucci è una corretta Fiorina, anche se la parte, in bocca a una autentica soubrette, avrebbe goduto di maggior effervescenza virtuosistica. Un po’ fragile ma tutto sommato valida la vocalità tenorile di David Ferri Durà (Carletto) e bravi gli altri interpreti: i bassi Vladimir Sazdovski (Il signor Roberto) e Francesco Auriemma (Succhiello Scorticone) e l’attore Mario Brancaccio, che ha impersonato la figura di Don Mario Luzio, personaggio aggiunto dal regista in omaggio allo storico impresario del Teatro San Carlino.
Buon successo di pubblico e bilancio più che positivo per la stagione en plein air estiva del Regio, che avrà ancora una succulenta appendice settembrina dedicata alla danza.

Regio Opera Festival 2022
DON CHECCO
Opera buffa in due atti
Libretto di Almerindo Spadetta
Dialoghi rielaborati da Mariano Bauduin
Revisione musicale a cura di Lorenzo Fico
Musica di Nicola De Giosa

Don Checco Cerifoglio Domenico Colaianni
 Bartolaccio Carmine Monaco
Fiorina Michela Antenucci
Carletto David Ferri Durà
Il signor Roberto Vladimir Sazdovski
Succhiello Scorticone Francesco Auriemma
Don Mario Luzio (attore) Mario Brancaccio

Orchestra e Coro del Teatro Regio Torino
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Mariano Bauduin
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Lorenzo Maletto
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino

Torino, Cortile di Palazzo Arsenale, 30 luglio 2022

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