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Su Rai5, La favorite con la regia di Rosetta Cucchi. Nel cast Simeoni e Osborn

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Oggi 14 marzo, alle ore 10.00, Rai5  trasmette La favorite di Gaetano Donizetti nella messa in scena realizzata nel 2016 dal Teatro La Fenice di Venezia. Sul podio Donato Renzetti. L’allestimento è firmato da Rosetta Cucchi, con le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Claudia Pernigotti e le luci di Fabio Barettin. Tra gli interpreti, Veronica Simeoni nel ruolo di Leonor de Guzman, John Osborn in quello di Fernand, Vito Priante nei panni di Alphonse XI. Orchestra e coro sono quelli del Teatro la Fenice di Venezia. La regia televisiva è curata da Daniela Vismara. Qui proponiamo la recensione di Roberto Mori.

L’Ottocento, si sa, non è un secolo femminile. È un’epoca di rivolte, di guerre, di lotte per l’indipendenza. Un secolo maschio, in cui l’autorità del padre non si discute. Alle donne, madri o figlie che siano, è riservata la gloria del sacrificio e della rinuncia. Questa è la regola anche nel mondo del melodramma, che alle sue eroine riserva in alternativa il rifugio nella follia. Un meccanismo che si capovolge solo nell’opera buffa, destinata tuttavia al declino dopo Rossini. Di fatto, con il Romanticismo alle protagoniste dell’opera seria non resta che soccombere e cantare la propria disfatta. Il palcoscenico diventa il luogo in cui il represso ha luogo, in cui il corpo e il suo desiderio trovano espressione e si sublimano attraverso gli artifici della vocalità. Ma nel luogo sociale e simbolico del teatro lirico, l’espressione del desiderio e delle aspirazioni femminili è destinata puntualmente alla sconfitta.

Alla luce di queste considerazioni, quando Rosetta Cucchi, nell’allestimento de La favorite realizzato nel 2016 per La Fenice di Venezia, immagina un mondo futuribile in cui le donne vivono appartate, mortificate e sottomesse da una casta di monaci-scienziati contro la quale la protagonista tenta di ribellarsi, è evidente che sceglie una chiave interpretativa tutt’altro che priva di logica e fondamento. Il punto è che questa lettura registica potrebbe essere utilizzata per gran parte dei melodrammi ottocenteschi, con le loro sequenze infinite di donne vittime e asservite al potere maschile. Se vogliamo, La favorite (1840) presenta una tematica che anticipa la “tela” che Verdi, con maggiore consapevolezza sociale, dipingerà compiutamente in Traviata. In entrambe le opere la simpatia va a una cortigiana, redenta ma destinata a soccombere ai dogmi della società patriarcale: una donna disposta alla rinuncia e al sacrificio per amore, mentre l’amante è un personaggio appassionato ma anche debole e ingenuo. Diverso è però l’ambiente: il contesto religioso in Verdi viene infatti accantonato a favore della nuova sensibilità borghese. E la diversità del contesto, in fin dei conti, non può essere ignorata. Favorite e Traviata, nonostante certe similitudini, non sono sovrapponibili dal punto di vista melodramamturgico.

Nella sua lettura di taglio concettuale, la Cucchi rimuove praticamente ogni riferimento sia alla dimensione grandoperistica concepita da Donizetti che alla cultura cattolica. La vicenda è proiettata in un futuro indefinito in cui i rapporti umani non sono più regolati da patti e vincoli sociali: le donne – velate, senz’anima e senza dignità – vivono segregate e separate dagli uomini. Tutto si svolge in un mondo artificiale e asettico, in cui si è ormai estinto anche il legame con la natura. Di questa sopravvivono solo piccoli reperti vegetali: piantine e fiori conservati gelosamente in teche di plastica collocate in una sorta di santuario-laboratorio. A dirigere questo tempio laico e a governare una società sessista e tirannica sono i monaci-scienziati guidati da Balthazar, il quale – giusto per rinfrescare la memoria – nel plot originario è il superiore del convento di Compostela dove si conservano le reliquie di San Giacomo. Inutile dire che il tentativo di Léonor di ribellarsi alle regole di un mondo tanto opprimente e violento sarà destinato al fallimento. E con lei soccomberà pure l’amato Fernand, fragile adepto della setta.
Sia le scene di Massimo Cecchetto, giocate per lo più sulle trasparenze e la neutralità dei materiali plastici, sia i costumi arcaico-futuristici di Claudia Pernigotti, risultano funzionali al concept registico della Cucchi. Nondimeno, l’esito complessivo è uno spettacolo algido, cerebrale, non sempre chiaramente decifrabile, al quale non giovano la diffusa staticità nella gestione delle masse e, conseguentemente, la mancata sintonia con il respiro spettacolare del grand-opéra. Le danze del secondo atto si riducono così a un balletto-pantomima affidato a due danzatrici che si agitano in un cilindro di plastica trasparente.

Se la parte visiva eccede in freddezza e astrazione, la cornice strumentatale è al contrario tutta fuoco e sonorità debordanti. Donato Renzetti, pur dando garanzia di tenuta complessiva all’esecuzione, imprime al discorso orchestrale una incisività preverdiana, ma ascrivibile al Verdi battagliero e risorgimentale, mentre in Favorite, semmai, troviamo anticipazioni sorprendenti del Verdi della Forza e Aida. Considerato poi che la partitura viene proposta in lingua originale e nell’edizione critica di Rebecca Harris-Warrick, si desidererebbero a tratti maggiore eleganza e leggerezza, nonché un senso più spiccato della cantabilità primo Ottocento.

Spesso coperti dall’orchestra, i cantanti si difendono ciascuno secondo le proprie possibilità. Nel ruolo di Fernand, concepito da Donizetti per Gilbert Duprez, la Fenice para uno degli interpreti più autorevoli del repertorio belcantista, John Osborn. Voce, come si sa, che non si distingue per fascino timbrico, ma sostenuta da cognizioni tecniche, stilistiche e da una varietà di fraseggio che oggi hanno pochi confronti. In questa occasione, il tenore americano stenta inizialmente a carburare la voce e nel primo atto appare un po’ sottotono. Nel corso della recita comunque si riprende e nel quarto atto ritorna al suo standard abituale, cesellando “Ange si pur” con linea di canto impeccabile, mezzevoci e smorzature d’alta scuola, acuti sicuri.
Poco aiutata dalla direzione, Veronica Simeoni esibisce, oltre a forzature in acuto, emissioni che anche al centro risultano meno pastose e rotonde rispetto ad altre occasioni. Naturalmente l’intelligenza interpretativa, la pertinenza dello stile e l’espressività del fraseggio le consentono di delineare con credibilità il personaggio di Léonor. Più che positiva la prova di Vito Priante, un Alphonse ben timbrato, capace di un un canto nobile e morbido nel Larghetto “Léonor, viens”, e quindi in grado di restituire al meglio il lato elegiaco-amoroso del ruolo, senza tuttavia trascurare quello cinico-perverso. La vocalità più ampia e sonora risulta quella di Simon Lim, un Balthazar solenne e convincente, anche se stilisticamente perfettibile. Tra le parti di fianco, si distingue in particolare Ivan Ayon Rivas nei panni di Don Gaspar.

Photo: Michele Crosera

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