È firmata da Mario Martone la nuova produzione del Rigoletto di Giuseppe Verdi che il Teatro alla Scala di Milano ha presentato lo scorso giugno, e che Rai Cultura trasmette giovedì 27 ottobre alle 21.15 in prima Tv su Rai5. Riproponiamo qui la recensione di Fabio Larovere
Dopo aver visto Carmen uccidere Don Josè, ora tocca al Duca di Mantova e ai suoi cortigiani pagare con la vita la loro immoralità. Accese contestazioni hanno accolto la prima di Rigoletto alla Scala. E questo nonostante la presenza di un pubblico internazionale, che dà l’idea di essere lì più per il teatro e l’emozione che offre che non per l’opera in sé. Ma tant’è: il bersaglio delle sonore proteste è stato soprattutto il regista Mario Martone con il suo team, ma non sono mancati dissensi anche per il direttore Michele Gamba. C’era in effetti molto attesa per questa nuova produzione del capolavoro verdiano, che giunge al Piermarini dopo che la precedente produzione, firmata da Gilbert Deflo nel lontano 1994, è stata ripresa ben dieci volte in questi anni. E la distanza tra le due letture – tradizionalissima quella di Deflo, ambientata oggi quella di Martone – è davvero siderale.
Il regista napoletano legge Verdi sotto una lente eminentemente politica e – stando a quanto dichiara nell’intervista inclusa nel programma di sala – vuole restituire “la violenza che Verdi aveva in mente”. Per farlo si ispira al pluripremiato film Parasite di Bong Joon-ho e grazie all’abilità della scenografa Margherita Palli, realizza una pedana girevole dove si affiancano i due mondi che caratterizzano questo capolavoro: quello corrotto del Duca e dei cortigiani e quello dei reietti. Il primo è un contesto di design elegante e laccato, illuminato da luci calde e cangianti (firmate da Pasquale Mari), il secondo invece è un bassofondo distopico, cupo e sporco. I due mondi non sono solo contigui, ma comunicanti. Proprio Rigoletto, il pusher del Duca, ne è il tramite. La scena del primo atto si apre su una festa che non ha la volgarità o l’esibizionismo di altri allestimenti, anche se è chiaro ciò che accade dietro i separé. Molto interessante è il personaggio di Monterone (l’ottimo Fabrizio Beggi), una sorta di homeless, presenza scomoda a corte, finito anche lui ai margini ma comunque pieno di dignità. Rigoletto si specchia in lui: in fondo, sono entrambi padri di figlie violate dal Duca. Tuttavia, tra i due sussiste una fondamentale differenza: Monterone, al contrario di Rigoletto, non è colluso con il potere.
Ciò detto, nonostante l’innegabile mestiere di Martone e l’intelligenza dell’assunto iniziale, la regia non decolla mai veramente e si attesta su una quieta e alquanto noiosa convenzionalità. Fino al coup de théâtre finale. Proprio quello che ha scatenato le proteste di parte del pubblico: la visione del Duca e dei cortigiani uccisi da una gang costituita da quei reietti che sembravano vivere come dei parassiti ai margini del loro mondo dorato e che invece, proprio come accade nel film coreano, si rivelano assassini e a loro modo giustizieri. E qui ci permettiamo di dissentire da Martone: Rigoletto è opera senza speranza, in questo fortemente simbolica della concezione di vita di Verdi, segnata da un profondo pessimismo. Una concezione che lo accomunava allo scrittore che, insieme a Shakespeare, più amava: Alessandro Manzoni. Con la differenza che nel “Gran lombardo” quel pessimismo trova riscatto nella luce della fede. In Verdi, invece – anticlericale, ateo e massone – non c’è Dio che possa ristabilire un equilibrio in un mondo profondamente segnato dall’ingiustizia e dalla sofferenza. Per questo, la lettura d Martone costituisce ai nostri occhi una forzatura non del tutto giustificata.
Sul fronte musicale, registriamo anzitutto la qualità di un cast oggettivamente di alto livello. Amartuvshin Enkhbat sfoggia un timbro morbido, pieno, di bel colore, valorizzato da una notevolissima linea di canto e da un bel gioco di smorzature e legati. L’accento è composto e austero; ciò che manca, semmai, è un maggiore scavo interpretativo, anche se si capisce che, rispetto a qualche tempo fa, il baritono mongolo si concentra con più attenzione sulla parola e sul suo significato. Va anche detto che, in alcuni casi, non è aiutato dalla direzione che, con il suo incedere nervoso e spedito, non consente di indugiare sul fraseggio di certe pagine come invece sarebbe opportuno. Meravigliosa la Gilda di Nadine Sierra: finalmente un soprano che fa piazza pulita di tutti i bamboleggiamenti di certa tradizione e conferisce a questo personaggio carne e verità. Sensualità anche: non solo per la seducente presenza scenica – in realtà volutamente sacrificata dalla regia -, ma pure per il particolare colore di un timbro ambrato e rotondo, ma al contempo agilissimo ed esteso, che sa piegare con straordinarie espressività e musicalità. Lo stellare virtuosismo di questa artista non è mai fine a sé stesso, così come la linea melodica è sempre restituita con un gusto squisito. Piero Pretti, pur non essendo in ottima forma vocale, è un Duca di classe, secondo una aristocratica stilizzazione che, se manca di predatoria sensualità, esibisce una linea di canto luminosa e ben proiettata, con una pregevole varietà di accenti.
Lo Sparafucile di Gianluca Buratto fraseggia molto bene nel duetto con il protagonista, ma appare meno a fuoco nel terzo atto. Apprezzabile, col suo timbro scuro, la Maddalena di Marina Viotti, così come le parti minori: Anna Malavasi (Giovanna), Costantino Finucci (Marullo), Francesco Pittari (Borsa), Andrea Pellegrini (Ceprano), Rosalia Cid (Contessa), Mara Gaudenzi (paggio), Corrado Cappitta (usciere).
Alterna, nella sua corrusca drammaticità, la direzione di Michele Gamba: sceglie tempi generalmente rapidi e questo, se da un lato imprime un innegabile passo teatrale alla narrazione, dall’altro, come detto, non sempre consente ai cantanti di lavorare adeguatamente sul fraseggio. Le sonorità, poi, sono spesso deflagranti e talvolta coprono le voci. Non mancano comunque momenti in cui il suono dell’orchestra della Scala esibisce una densa morbidezza e tornitura, nel segno di una generale cupezza espressiva perfettamente in linea con la lettura registica.
Per quel che concerne la filologia, Gamba sceglie di stare nel mezzo tra la lezione originale e il portato della tradizione, per cui ci sono alcuni tagli e non mancano diversi acuti. Il coro, istruito da Alberto Malazzi, si disimpegna bene.