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Su Rai5, in prima serata, “La dama di picche” della Scala con Asmik Grigorian

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Un giovane direttore d’orchestra in ascesa come Timur Zangiev, una nuova produzione firmata da Matthias Hartmann e la rivelazione del teatro musicale degli ultimi anni, il soprano Asmik Grigorian, come protagonista femminile. Sono i protagonisti principali di uno degli spettacoli più attesi dell’anno: La dama di picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij, andata in scena lo scorso febbraio al Teatro alla Scala, che Rai Cultura propone giovedì 29 settembre alle ore 21.15 su Rai 5. Riproponiamo qui la recensione di Stefano Balbiani

Uno degli spettacoli più attesi della stagione in corso del Teatro alla Scala, titolo assente da Milano da diciassette anni (nel 2005 fu proposto agli Arcimboldi, diretto da Yuri Temirkanov, mentre per la sua ultima apparizione sulle tavole scaligere bisogna risalire all’edizione del 1990 con Mirella Freni e Seiji Ozawa), torna al Piermarini uno dei capolavori di Pëtr Il’ič Čajkovskij, una sorta di grand opéra russo intriso di emozioni tormentate, profondo scandaglio delle psicologie umane e inquietanti rimandi alla componente fantastico-surreale: Pikovaja dama (La dama di picche). Su libretto del fratello del compositore, il drammaturgo Modest Čajkovskij, liberamente tratto dall’omonimo, conciso racconto di Aleksandr Puškin, l’opera in tre atti fu scritta in buona parte a Firenze, quando il musicista alloggiava presso l’Hotel Washington; il debutto, accolto da un franco successo, avvenne nel dicembre 1890 al Mariinskij di San Pietroburgo.

Sostituito il previsto Valery Gergiev per le note vicende, troviamo sul podio Timur Zangiev. Classe 1994, nato nell’Ossezia del Nord, il giovane maestro aveva già partecipato alle prove di questa produzione; ha all’attivo impegni sui più prestigiosi palcoscenici russi, quali lo Stanislavskij-Nemirovič-Dančenko, il Bol’šoj e il Mariinskij. Dirigendo senza bacchetta, con gesto pulito e ampio, all’occorrenza energico e scattante, Zangiev dà, dell’elaborata partitura, una lettura raffinata e nitida, coesa e di lucida levigatezza, soffusa e al contempo vibrante, ottenendo dalla compagine scaligera un suono polito e dalle tinte pastello, all’occorrenza variegato in sonorità corrusche e maggiormente livide (in momenti quali, ad esempio, il temporale del I atto o il suicidio di Liza). Una direzione, quella di Zangiev, nella quale coesistono felicemente tecnica ferrea, rigore stilistico, squisita sensibilità interpretativa e duttilità timbrica, tutto molto apprezzato dagli spettatori.

Ben assortito il cast. Debutta alla Scala con uno dei suoi cavalli di battaglia Najmiddin Mavlyanov. Il tenore nativo di Samarcanda si distingue per uno strumento vocale voluminoso ed esteso, di colore riconoscibilissimo, saldo e a tratti stentoreo in acuto; con un fraseggio non sempre sfumato e con una recitazione intensa, dà vita con credibilità e senza alcun cedimento a un Hermann tormentato e dannato, passionale e inquieto. Acclamata a livello internazionale e già applaudita su queste tavole nel 2019 in Die tote Stadt, ritroviamo nei panni di Liza il soprano lituano Asmik Grigorian. Presenza scenica fascinosa, incisiva e magnetica, sebbene frenata rispetto al solito da una regia – come vedremo – discutibile e banale, la Grigorian impersona con tempra una fanciulla sofferta e innamorata, esibendo una voce luminosa e di buon peso, graffiante e tagliente nelle note più alte, una dizione pregnante e ricca di accenti e un’intonazione solida. Cocente la resa della scena e dell’arioso del III atto, accolti da calorosi applausi.
Assente dal Piermarini dal Tannhäuser del 2010, il mezzosoprano Julia Gertseva incarna una Contessa algida e autoritaria, dal portamento aristocratico e distaccato, in possesso di una vocalità morbida nell’emissione e di tinta ambrata; la canzone “Je crains de lui parler la nuit”, dal Richard-Coeur-de-Lion di André-Ernest-Modeste Grétry, è cesellata con gusto, delicata nostalgia e soffici mezzevoci. Il baritono Alexey Markov delinea un principe Eleckij signorile e fisicamente nobile, vocalmente autorevole, potente e omogeneo. Il mezzosoprano Elena Maximova, nota al pubblico milanese per le sue esibizioni in Carmen nel 2010 e in Die Fledermaus nel 2018, è una Polina dallo strumento vocale pastoso e ben espanso, di colore dell’ebano e vellutato in ogni registro; la romanza del I atto è intonata con languoroso e dolente abbandono, mentre la canzone russa con coro è affrontata con brio e spigliatezza. Sonoro e torrenziale è il conte Tomskij del baritono Roman Burdenko, sicuro e svettante in acuto e scenicamente importante; squillante il Čekalinskij del tenore Evgenij Akimov; tonante il Surin del basso moldavo Alexei Botnarciuc; voce puntuta e cristallina il soprano Maria Nazarova, nel doppio ruolo di Maša e Prilepa; tornita la governante del mezzosoprano Olga Savova; musicale il tenore messicano Brayan Ávila Martínez come cerimoniere. Puntuali il tenore Sergey Radchenko (Čaplickij), il contralto ucraino Olga Syniakova (Milovzor), il tenore cileno Matías Moncada (Narumov) e il capo della banda dei ragazzini (Beatrice Calori).
Sbarazzino e fresco l’intervento iniziale del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Marco De Gaspari; ineccepibile e in forma smagliante il Coro, guidato con nerbo e precisione da Alberto Malazzi nelle variegate pagine che costellano lo spartito (ricordiamo, almeno, il toccante finale, cantato a cappella e in pianissimo dai giocatori, “Signore, perdonalo, e dona la pace alla sua anima inquieta e travagliata”, oppure la vivace petulanza delle dame del seguito della Contessa e delle cameriere).

Se la parte musicale è convincente, lo stesso non si può dire di quella visiva. Matthias Hartmann concepisce uno spettacolo cupo, astratto e spoglio, in linea del resto con il Freischütz del 2017 e l’Idomeneo preromantico del 2019 (che, tutto sommato, ci convinsero abbastanza); un allestimento giocato sulle tonalità del bianco, del nero e del grigio, esteticamente poco allettante (tendente al brutto) e registicamente inerte o quasi. Eccezion fatta per Hermann e la Contessa, nei quali si percepisce un timidissimo tentativo di scavo e di caratterizzazione del personaggio, gli altri interpreti sono abbandonati a loro stessi e alle proprie capacità attoriali; tutti i cantanti sono, poi, quasi sempre relegati al proscenio, e alcuni aspetti della partitura (in special modo quelli sentimentali) rimangono in superficie. Avvalendosi della drammaturgia di Michael Küster, il regista tedesco introduce la figura leggendaria del conte di Saint-Germain, viveur e ciarlatano, avventuriero, spia e alchimista nella Parigi di Luigi XV e Madame de Pompadour. Nel racconto di Puškin e nel libretto di Čajkovskij apprendiamo che fu lui a rivelare all’avvenente Contessa, in cambio di un rendez-vous notturno, il segreto delle tre carte vincenti (tre, sette e asso), le “tri karty” che ossessionano il protagonista spingendolo sino al suicidio. Saint-Germain compare quindi spesso in scena, in azzurri abiti settecenteschi, fungendo anche da anfitrione della festa del II atto: una presenza, alla lunga, risultata stucchevole e superflua. Le scenografie squallide e scarne di Volker Hintermeier mostrano imponenti e lugubri parallelepipedi rotanti, ricoperti via via da accecanti tubi al neon bianco, davvero fastidiosi per chi è seduto in platea o nei palchi, eterei tendaggi, specchi riflettenti, imbottiture in velluto scuro nella camera della Contessa; pochi altri elementi (un inutile e brutto cestino della spazzatura, grandi cuscini, lampadari in cristallo, un letto matrimoniale, un ritratto fotografico della Contessa e un tavolo da gioco psichedelico) via via arricchiscono – se così si può dire – il palcoscenico vuoto. Malte Lübben crea costumi sobri ed essenziali, di taglio ottocentesco e di colore neutro, a esclusione di quelli dell’intermezzo La sincerità della pastorella, di foggia settecentesca e dalle nuances pastello. Le luci di Mathias Märker sono principalmente fredde e asettiche, dorate e calde durante il ballo in maschera del II atto; le coreografie di Paul Blackman appaiono grottesche. Uno spettacolo, nel complesso, povero di idee e a tratti noioso, dove accanto a sparute scene ben risolte (la morte di Liza), ne troviamo altre poco sensate (la Contessa si aggira torva con occhiali da sole e una maschera di bellezza, forse per conservare intatto nel tempo il fascino da “Venere moscovita”?), se non addirittura grossolane (il quadro settimo con la sala da gioco), futili (la governante con il vizio dell’alcool) e ridicole (all’arrivo della Contessa nella stanza di Liza, Hermann si nasconde sotto una pigna di cuscini).
Teatro quasi esaurito (tra i presenti, anche la senatrice a vita Liliana Segre) e successo caloroso, con circa dieci minuti di applausi e punte di entusiasmo per Julia Gertseva, Elena Maximova, Alexey Markov e Roman Burdenko; ovazioni per Timur Zangiev, Asmik Grigorian e Najmiddin Mavlyanov.

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