Su Rai5, il Macbeth dal Regio di Parma con la regia di Liliana Cavani. Dirige Bartoletti
Si dice che Macbeth porti iella. E che la versione di Verdi sia di gran lunga più infausta di quella shakespeariana. Tutte sciocchezze, naturalmente. Se c’è una cosa che procura sfortuna, direbbe Umberto Eco, è proprio la superstizione. Tuttavia un fatto è certo: quest’opera non ha portato bene a Liliana Cavani. E non solo per i fischi che le sono piovuti al debutto dell’allestimento realizzato con lo scenografo Dante Ferretti al Teatro Regio di Parma nel 2006. Ma anche perché con questa messinscena, che Rai Cultura ripropone lunedì 10 gennaio su Rai5 alle ore 10.00, la regista ha forse realizzato lo spettacolo operistico meno riuscito della sua carriera.
È vero che, in alcuni film, Cavani ha dimostrato di saper scavare nel torbido e nei meandri della psiche. Ma è altrettanto vero che, a teatro, ha sempre praticato il realismo e la tradizione. Non si capisce perché, con questa produzione, si sia messa a giocare all’avanguardia, escogitando con trent’anni di ritardo una “ronconata” basata sui meccanismi del sincretismo temporale e del teatro nel teatro. L’idea su cui poggia l’allestimento è l’ambientazione in un teatro elisabettiano (il Globe) rivisitato in chiave novecentesca. Siamo negli anni della seconda guerra mondiale e il pubblico (coro e comparse) assiste a una recita di Macbeth in abiti seicenteschi. Che cosa c’entri il Seicento con Macbeth resta ovviamente un mistero. Quanto all’intenzione di evocare gli anni bui del nazifascismo, è un espediente che non produce alcun effetto drammaturgico. La tinta nera dell’opera non emerge e in scena non si respira affatto aria di tragedia.
L’unico spunto originale sta nella raffigurazione delle streghe, che rappresentano come si sa il motore della vicenda. Per Cavani non sono esseri soprannaturali, ma lavandaie, popolane un po’ esagitate con doti di chiaroveggenza, poco più che delle cartomanti. L’elemento fantastico e la componente irrazionale e visionaria – personificazione delle pulsioni e dei desideri inconsci dei protagonisti – vengono ridotti a banale superstizione. Pure questa, insomma, una trovata inconcludente.
A ogni modo, se lo spettacolo non funziona è soprattutto per l’eccessiva macchinosità. I tratti salienti di Macbeth sono la brevità e il terrore: la “terribile celerità” di cui parla Schlegel. Qui, invece, la tensione narrativa viene spezzata continuamente da cambi di scena interminabili, durante i quali coro e comparse si alzano dalle balconate per passeggiare e conversare in palcoscenico. Se nella ripresa televisiva tutto viene aggiustato, il risultato in teatro è devastante per la drammaturgia – che risulta così frammentata, rallentata, dilatata oltre misura – e irritante per il pubblico (quello vero). All’esito negativo dà un contributo decisivo anche l’impianto scenico, brutto e antifunzionale come raramente capita di vedere.
Non brilla neppure il versante musicale. La conduzione è affidata a Bruno Bartoletti, all’epoca ottantenne. Il glorioso maestro naturalmente dirige bene, regola con accortezza tempi, timbri e dinamiche in accordo con la migliore tradizione teatrale italiana. Scarsamente approfondita, tuttavia, è la concertazione vocale. Poco interessato agli aspetti più avanzati e sperimentali della scrittura verdiana, Bartoletti non fa molto per indirizzare i cantanti a rispettare la miriade di segni d’espressione previsti in partitura. Leo Nucci, per esempio, sorvola su gran parte delle prescrizioni verdiane. Si impone per la buona tenuta vocale, gli acuti robusti e sicuri, ma canta quasi sempre a voce piena o mezzoforte, sacrificando i pianissimo, i toni sussurrati e compressi. E se non mancano momenti drammatici efficaci, il fraseggio è poco analitico e interiorizzato, e l’aria “Pietà, rispetto, onore”, per quanto acclamata dal pubblico, risulta carente di nobiltà.
Sylvie Valayre, con la sua voce da soprano lirico spinto dal timbro scuro e povero di colori, delinea una Lady mediocre, forse a tratti più attenta alle dinamiche rispetto a Nucci, ma disomogenea nell’emissione, monotona nell’accento, a disagio nelle agilità e, soprattutto, poco in sintonia con la parola scenica verdiana. Enrico Iori è un Banco dai suoni poco morbidi e non sempre fermi in basso, ma nell’insieme passabile. Modesto il Macduff di Roberto Iuliano.
Il coro, spesso penalizzato dalla dislocazione in palcoscenico, si fa valere in “Patria oppressa”. [Rating:2.5/5]