Dall’edizione 2019 del Festival di Musica antica di Innsbruck, Rai Cultura propone La Dori, dramma musicale in tre atti del compositore aretino Pietro Antonio Cesti su libretto di Giovanni Filippo Apolloni, in onda giovedì 13 gennaio alle 21.15 su Rai5. Riproponiamo qui la recensione di Francesco Bertini.
Dopo tre sole rappresentazioni nel secolo scorso, in occasione del 350° anniversario dalla morte dell’autore, torna in scena La Dori di Pietro Antonio Cesti nell’ambito delle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik. Il compositore aretino a meno di trent’anni viene ingaggiato, dal dicembre 1652, presso la corte dell’Arciduca Ferdinando Carlo del Tirolo, proprio a Innsbruck, in qualità di maestro di cappella della camera, ossia come dirigente dei musici di camera, compositore per il diletto del sovrano, quindi maestro di cappella del teatro di corte. La Dori, su libretto del fidato Giovanni Filippo Apolloni, debutta al Teatro di Corte di Innsbruck nel 1657 e ottiene grande popolarità, al pari della precedente Orontea. Nella struttura della partitura spiccano i recitativi accompagnati, non comuni nei lavori dell’epoca, e alcune arie concepite con particolare attenzione alle esigenze interpretative. Al consueto intreccio amoroso, reso ulteriormente ingarbugliato da frequenti travestimenti e da un libretto sovente farraginoso, si uniscono aspetti collegati alla politica e brevi episodi comici.
La realizzazione scenica opta per una visione tradizionale, riletta secondo una chiave psicologica collegata all’agire dei vari personaggi. Il team costituito da Stefano Vizioli, regia, Emanuele Sinisi, scene, e Annamaria Heinreich, costumi, cerca di mantenersi aderente al libretto senza scadere nella banalità e offrendo qualche stimolo attraverso un’acuta reinterpretazione. Senisi si ispira alla pittura (soprattutto rinascimentale) che è base fondante per un mutevole gioco coloristico e scenografico: con sapide scelte d’illuminazione (curate da Ralph Kopp) e semplici variazioni nell’approntamento delle ambientazioni, vengono concretizzati gli ambienti e prendono vita i personaggi. Nella semplicità della messinscena, Vizioli tiene bene in considerazione i vari connotati del dramma musicale di Cesti. Il regista offre una lettura capace di porre in risalto tanto i tormenti amorosi, politici e sociali, quanto la comicità gustosa di alcuni passaggi in cui il travestimento diviene elemento buffo.
A dettare i tempi della rappresentazione è presente, come direttore e cembalista, Ottavio Dantone il quale oltre alla conoscenza pluridecennale di questo repertorio può contare sulla lunga collaborazione con l’Accademia Bizantina, compagine fondata nel 1983 e da lui guidata dal 1996. L’estrema malleabilità dell’ensemble plasma un’esecuzione di sorprendente attenzione tecnica: alla pulizia del suono, coeso e preciso, si abbina una solerte indagine del fraseggio e un efficace approfondimento filologico. A Dantone spetta il merito di sapere sovrintendere l’intera operazione concertando con la passione che lo contraddistingue e accompagnando le parti recitate con proprietà e gusto.
Francesca Ascioti, Dori, ma per buona parte dell’opera nelle vesti dello schiavo Alì, affronta il proprio ruolo con disinvoltura. Il mezzosoprano ha solida formazione tecnica, presta attenzione al testo e al fraseggio in una prova di valida fattura. Per confermare l’abitudine ai travestimenti, anche Tolomeo si presenta nei panni di Celinda: spetta a Emöke Baráth rendere al meglio questo sdoppiamento scenico. Il soprano ungherese ha dalla sua un timbro cristallino e un’emissione rifinita che coglie nel segno le esigenze della parte. Non le manca il temperamento, ben evidente nella prestazione scenica assai convincente. Caratteristica che contraddistingue anche la performance di Francesca Lombardi Mazzulli, Arsinoe dal timbro piacevole e dalle personali intenzioni interpretative.
Tra le voci maschili si apprezzano particolarmente l’arguto Dirce di Alberto Allegrezza che brilla per simpatia come anziana balia di Oronte e il convincente Rocco Cavalluzzi, efficace nei panni di Golo. Due i controtenori in azione: Rupert Enticknap e Konstantin Derri. Il primo interpreta il complesso ruolo di Oronte mettendo in campo una certa duttilità, non sempre sorretta da valida omogeneità e penalizzata purtroppo da una dizione problematica. La grande scena del secondo atto “Occhi voi, che piangete” ne risalta il colore ambrato e talune apprezzabili intenzioni musicali collegate alle soluzioni drammaturgiche della partitura. Il secondo, grazie anche a una figura slanciata, risulta credibile nei panni dell’eunuco Bagoa. Il suo strumento, pur non essendo particolarmente impressivo, riesce a mettere in evidenza i tratti grotteschi e bizzarri che delineano un personaggio fortunato nel canone operistico sei-settecentesco. Completano la compagnia l’Artaserse bilanciato di Federico Sacchi, l’Arsete valido di Bradley Smith e l’Erasto convincente di Pietro Di Bianco.
Ottima l’accoglienza finale del pubblico, entusiasta per spettacolo e interpreti. L’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik si conferma una manifestazione votata alle riscoperte: il prossimo Festival, già annunciato, prevede Leonora di Ferdinando Paër, l’intermezzo La pellegrina di Girolamo Bargagli e L’empio punito di Alessandro Melani.