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Spoleto, 65° Festival dei Due Mondi – Canti della lontananza di Gian Carlo Menotti

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Una lontananza che non è realmente tale. Gian Carlo Menotti, ideatore e per anni direttore artistico del Festival dei due mondi di Spoleto, non solo è presente nelle immagini, nei luoghi e nello spirito che caratterizzano la kermesse. È anche evocato nel programma dell’edizione numero 65 del Festival, grazie all’esecuzione di alcuni suoi brani in un emozionante concerto che proprio da una sua suite prende il nome, ovvero Canti della lontananza. Si tratta di un ciclo di sette liriche per voce e pianoforte che il musicista scrisse nel 1967 per Elisabeth Schwarzkopf e che venne eseguito per la prima volta a New York.

Ora, il Festival spoletino ha commissionato al compositore Orazio Sciortino la trascrizione per ensemble di questo ciclo così affascinante, anche perché legato alla biografia del grande compositore e al suo rapporto tormentato con Samuel Barber. “La musica di Menotti – spiega Sciortino – rappresenta un unicum nel panorama del Secondo Novecento; il suo linguaggio, libero dal pensiero dominante dell’avanguardia post bellica, estremamente lirico, non rinuncia a riferimenti tonali e al ricorso alla consonanza. Orchestrare Menotti oggi significa reimmaginarlo, utilizzando il suo vocabolario timbrico e rileggerlo con occhio critico facendo emergere la sua naturale e spontanea complessità”. Come è stato accostarsi alla sua musica? “I suoi tempi non sono così lontani dai miei – risponde il musicista -, quindi lo sforzo non è stato così grande. Di certo, si è trattato di riscrivere e reinventare timbri e armonie, là dove la scrittura originale, assai pianistica nelle formule utilizzate, non avrebbe permesso una trascrizione ‘alla lettera’. Del resto, l’atto del trascrivere, dell’orchestrare, ha alla base il concetto di ‘riduzione’ a materia grezza per poi ricomporre, nel senso di comporre nuovamente. Naturalmente, la linea vocale è rimasta intatta”. Che valore ha Menotti nel panorama del Novecento? “Menotti insegna che esiste un altro Novecento, quello parallelo alle grandi ‘correnti’ o ‘accademie’, e che è possibile dire ‘il nuovo’ pur utilizzando strumenti tradizionali, e che la musica va oltre i dogmi e le caselle musicologiche”.

L’esecuzione dei Canti della lontananza è stata affidata alla voce chiara e corposa e alla intensa espressività del soprano Giulia Peri, accompagnata da un ensemble di undici musicisti della Budapest Festival Orchestra, compagine in residenza al Festival di quest’anno. Si tratta di strumentisti di altissimo livello per tecnica, musicalità e fraseggio. I brani di Menotti hanno così brillato nel loro vivido e sincero tratto emotivo, suscitando l’entusiasmo del pubblico presente. Il concerto prevedeva anche altri pezzi contemporanei. Anzitutto, Firefly elegy per clarinetto, violino, viola, violoncello ed arpa, opera dell’israeliano Gilad Cohen, classe 1980, con la sua originale ibridazione di differenti influenze e generi musicali. C’erano poi due brani di altrettanti compositori viventi: Thrush song per soprano (sempre l’ottima Giulia Peri), violino, viola, violoncello e percussioni di Paola Prestini e And then I knew ”twas wind per flauto, viola e arpa di Toru Takemitsu. Compositore molto importante, quest’ultimo, partito dalla musica tradizionale giapponese ma che ha poi deciso di rifarsi alla musica occidentale e ha individuato in particolare in Debussy il suo riferimento. Anche perché il compositore francese, con il suo interesse nei confronti dell’oriente, in un certo senso si presta a fare da ponte tra le due culture. Ciò detto, Takemitsu ha saputo comunque riproporre nella sua opera alcuni elementi caratteristici della musica giapponese, come ad esempio l’importanza del silenzio, per cui in alcuni momenti sembra partire da quello che non si sente piuttosto che da ciò che si sente. E questo è molto orientale. Oppure, le sue composizioni si dipanano a flusso di coscienza, quasi senza una sintassi organizzata: tutto il contrario di quanto avviene in Occidente, dove anche la musica più libera è normata da principi formali abbastanza stringenti. Si tratta quindi di un autore con una personalità propria molto ben definita, che riguarda anche la ricerca timbrica del colore, nel segno di una sintesi molto particolare. Se ne è avuto prova nel trio eseguito a Spoleto, dal fascino sospeso e misterioso. Paola Prestini è invece una compositrice espressione di una certa parte della scena americana contemporanea, quella che ricorre a una musica che è “post tutto”: post minimalista, post tonale… e che si può definire “neosemplice”, perché quasi rifugge da una precisa identità per scegliere una sorta di anonimato, nel realizzare moduli neutri adattabili a diversi contesti. Musica molto flessibile, dunque, anche per questo richiestissima per accompagnare la danza, per il cinema, per performance con letture: una scrittura molto elegante, disinvolta nell’utilizzare il linguaggio del passato, ma senza ricercare una via troppo personale. Interessante il pezzo ascoltato a Spoleto, soprattutto perché omaggio alla biologa americana Rachel Carson (1907-1964), pioniera del movimento ambientalista statunitense.

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