Come ‘intermezzo’ comico tra due opere serie è ritornato quest’anno al Rossini Opera Festival un titolo raro in altri teatri, La gazzetta, ma che efficacemente illustra le strategie della kermesse pesarese: da un lato, infatti, c’è l’inesausto desiderio di accrescere il repertorio di nuovi titoli, preziosi come in questo caso. Si tratta, infatti, del debutto di Rossini nel genere buffo a Napoli, il 26 settembre del 1816 al Teatro dei Fiorentini, dopo la trionfale accoglienza di Elisabetta regina d’Inghilterra, nell’autunno del 1815, e ormai in prossimità del rivoluzionario Otello, che avrebbe visto la luce nel dicembre successivo. Tra Elisabetta e La gazzetta, tuttavia, l’irrefrenabile genio rossiniano aveva prodotto per Roma anche Torvaldo e Dorliska e soprattutto Il barbiere di Siviglia, oltre alla cantata Le nozze di Teti e Peleo. Un periodo particolarmente fecondo, dunque, accompagnato dalla singolare impresa di misurarsi con «il Dialetto Napolitano che non troppo capisco» – come confessò alla madre nel corso dell’estate – che era una componente essenziale dell’opera buffa partenopea. Ne scaturì un piccolo, grande capolavoro, dal quale si rimane irretiti e che – per lo spettatore contemporaneo – è una piccola summa della scrittura rossiniana, atteso un uso della parodia musicale elevato all’ennesima potenza: si comincia con la Sinfonia, che sarebbe transitata nella Cenerentola, ma poi si susseguono temi e arie che attingono, tra l’altro, al Turco in Italia, alla Pietra del paragone e al Barbiere di Siviglia, per limitarsi ai casi più noti.
Ma c’è di più, nella storia della Gazzetta a Pesaro. ‘Riscoperta’ nel 2001 e poi ripresa quattro anni più tardi, in una fortunata produzione liberty firmata da Dario Fo, la partitura – tanto nell’autografo quanto nei testimoni esistenti – rimaneva priva di un intero numero musicale, il Quintetto «Già nel capo un giramento», con il relativo recitativo, che riveste un’importanza strategica nella drammaturgia del primo atto e che era stato elogiato in occasione del debutto dell’opera. Nel 2001, dunque, si pervenne a una soluzione ‘creativa’: Philip Gossett – curatore dell’edizione critica insieme a Fabrizio Scipioni – decise di musicare ex novo il recitativo, mentre i versi del Quintetto vennero declamati dai rispettivi personaggi nel corso di una tammurriata sostenuta dal fortepiano, che eseguiva la celeberrima “Danza” dalle Soirées musicales. Alcuni anni più tardi, nel 2007, al Festival di Wildbad si decise di commissionare a Stefano Piana la composizione ex novo del brano. Gli archivi, tuttavia, sono sempre prodighi di felici scoperte: nel 2011, al Conservatorio di Palermo Dario Lo Cicero rinvenne un piccolo contingente di manoscritti tra i quali – in maniera abbastanza inspiegabile: forse la ripresa al Carolino del 1828? – figurava per l’appunto il Quintetto in questione, validato da Gossett e inserito nell’edizione critica. E proprio questo numero ritrovato è stato, ancora una volta, un’occasione preziosa per smontare le supposizioni elaborate alla sola lettura della parte testuale, dal momento che i riferimenti ad altri pezzi rossiniani, passati e futuri, corrispondeva solo in parte al materiale ritrovato e invece attestava un inesausto labor limæ di scrittura: La gazzetta è, insomma, la dimostrazione della costante attenzione di Rossini alla dimensione compositiva, specie in occasione di un debutto così importante, come quello napoletano. Basterà, questo, ad assicurare nuova, lunga vita all’opera?
A Pesaro ci riprovano, riprendendo il fortunato allestimento firmato da Marco Carniti nel 2015. Sobrio, essenziale, raffinato, lo spettacolo è stato solo in parte rivisto, a cominciare dalla Sinfonia. Occupata esclusivamente da un tavolo-passerella che all’occasione si smembra in due o quattro segmenti, la scena light di Manuela Gasperoni è spiritosamente vuota: i «deliziosi giardini», quindi la «locanda di Filippo» sono infatti sostituiti da una scatola incolore, le cui pareti vengono illuminate da Fabio Rossi d’argento e d’ottanio, di smeraldo e di rosso pompeiano. Tempo e spazi si moltiplicano, s’intersecano, traghettano dalla contemporaneità primottocentesca a una Parigi che improvvisamente svapora nel Dopoguerra, quando l’haute couture muoveva i suoi primi passi. Per questo rivestono un posto di primo piano gli elegantissimi costumi firmati da Maria Filippi, interamente in bianco e nero per la prima parte, salvo tingersi per gli interventi ‘esotici’, di oro e di rosso per i quaccheri del Finale primo, di giallo Napoli e albicocca per i turchi del Finale ultimo. È un microcosmo chiuso ma al tempo stesso aperto all’altrove, sensibile a una genuinità di emozioni che vivamente contrasta con le imposizioni sociali, in fin dei conti pronto a schiudersi a una diversità che è finzione, meccanismo, scherzo: fino al sapido gioco dei travestimenti, che nella festa finale non può non ricordare la confusione di identità e di sentimenti che da Così fan tutte migra nel Turco in Italia. Carniti gioca di fioretto, prescrive una direzione attoriale puntuale, serratissima, piena di irresistibile verve, impiega con le lettere lo stesso criterio di composizione e di scomposizione della drammaturgia rossiniana: «Hotel Aquila», «rimbombar» (al termine del Quintetto), «Questo chiasso maledetto» (al primo sipario) sono le scritte che si smembrano nel secondo atto, ora in maniera piccante («Hot», per accompagnare il Duetto Lisetta-Filippo), ora in maniera surreale, alla Palazzeschi, per il finale ultimo, quando hanno ormai perduto ogni significato. Perché di scrittura si parla, nella Gazzetta: concreta, fatta di un «concorso» per un matrimonio, ma anche di una materia più leggera e impalpabile, che gradualmente invade il palcoscenico: nuvole appese a un filo che ricordano Magritte, agglomerati di pensieri che si fanno poesia.
È dalla fossa, tuttavia, che parte l’entusiasmo per questa partitura: affidata alla bacchetta di Carlo Rizzi, che guida con fervore l’Orchestra Sinfonica G. Rossini, una compagine piccola ma ben affiatata come il Coro del Teatro della Fortuna, diretto come sempre da Mirca Rosciani, e nei recitativi secchi il fortepiano spiritoso e creativo di Alessandro Benigni. Rizzi sembra quasi prender gusto nel sottolineare i rimandi tra le varie partiture rossiniane: lo fa sin dalla Sinfonia, ma poi è attento a intrecciare le fila dello gliuommero con una vis di straordinario impatto teatrale. Ne beneficiano tutti gli assiemi, dall’Introduzione al primo, delizioso Quartetto; esplode nel Finale primo, semplicemente travolgente; e poi ripiega nelle tinte più sfumate, pastello, garbatamente pungenti della turquerie finale, piccola commedia degli inganni di cui è accorto manovratore. Il direttore milanese è anche attento alle ragioni del canto, che asseconda con leggerezza e raffinatezza, con una scelta dei tempi esemplare, con gusto di dinamiche sempre sorvegliate, accurate. Nulla si perde della commedia: forse questo è il suo merito maggiore, visto l’intreccio particolarmente ingarbugliato, come da tradizione tardo-settecentesca.
Dispone, peraltro, di un’eccellente compagnia di canto, in cui giganteggia il don Pomponio Storione di Carlo Lepore. È singolare come l’artista napoletano, che pure è un veterano del Rof, stia vivendo una sorta di magnifica, seconda giovinezza: dopo i recenti successi scaligeri rossiniani, qui ritrova intatta la magniloquenza di un personaggio che, tuttavia, non è mai sopra le righe. Degno erede della tradizione leggendaria di Carlo Casaccia, primo interprete del ruolo, assicura una dizione perfetta a un napoletano cruscante, croccante, arguto e sempre perfettamente comprensibile – anche nelle sue declinazioni ottocentesche – tratteggiando un ritratto furbo ma umanissimo, grandioso e naturale. Autentico colpo d’ala è l’avergli posto accanto come ‘spalla’ Ernesto Lama, mimo tra i più ragguardevoli della scuola napoletana: irriverente e cinico, tenero e svampito, declina la maschera di Pulcinella con una sensibilità sorgiva e purissima, grazie alla quale diventa coprotagonista dello spettacolo. La scena della redazione della lettera da inviare alla gazzetta, chiaramente esemplata sul modello di quella di Totò, Peppino e la malafemmina, è un pezzo di teatro imperdibile, grandissimo, esilarante.
Alla stessa altezza naviga l’ottimo Filippo di Giorgio Caoduro: anno dopo anno si sta imponendo come uno dei cantanti rossiniani più ragguardevoli della giovane generazione, grazie a una coloratura di forza d’impressionante vigoria e nitore: il Terzetto in cui – con Alberto – duella con Pomponio è una gara all’ultima fioritura, prima della grande Aria in cui eccelle per l’esuberanza e l’eloquenza del gesto vocale, grazie a uno strumento sfarzoso e sonoramente proiettato e all’incisività penetrante del fraseggio. Sul fronte maschile, merita un plauso anche l’importante Alberto di Pietro Adaíni: opportunamente evita di sforzare il registro acuto, pur provvisto di una sua luminosità, e preferisce mettere in luce una musicalità e un’espressività evidenti sin dalla cavatina nell’Introduzione, ma che raggiungono consistenza nell’impegnativa Aria «O lusinghiero amor», risolta con sicurezza. Nei ruoli di fianco, Pablo Gálvez è un forbito Monsù Traversen mentre Alejandro Baliñas è un allampanato Anselmo.
Non priva di sorprese, piuttosto, è la compagine femminile. Maria Grazia Schiavo firma una Lisetta in crescendo: la sortita la vede a disagio, perché spiace il retrogusto manifestamente acidulo del registro acuto, cui supplisce tuttavia con scaltrezza ed eleganza. È un ruolo lungo e complesso, e si apprezza l’intelligenza con cui fa scivolare l’Aria del secondo atto, «Eroi più galanti», verso la dimensione di una scena della pazzia, controllatissima negli esiti ma estremamente ironica nell’approccio. Civettuola con discrezione, sfodera sicurezza nelle agilità e invidiabile presenza scenica. Nei ruoli di fianco ottiene un successo personale Andrea Niño, per la rotondità e la bellezza del timbro mezzosopranile, ma anche Martiniana Antonie è una Doralice seducente e persuasiva, a completare un piccolo, ma affiatato gruppo di ‘lettori’ della Gazzetta, ennesimo gioiello della corona napoletana.
Rossini Opera Festival 2022
LA GAZZETTA
Dramma per musica in due atti di Giuseppe Palomba
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini,
in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Philip Gossett e Fabrizio Scipioni
Don Pomponio Carlo Lepore
Lisetta Maria Grazia Schiavo
Filippo Giorgio Caoduro
Doralice Martiniana Antonie
Anselmo Alejandro Baliñas
Alberto Pietro Adaíni
Madama la Rose Andrea Niño
Monsù Traversen Pablo Gálvez
Tommasino Ernesto Lama
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro della Fortuna
Direttore Carlo Rizzi
Maestro del coro Mirca Rosciani
Maestro al fortepiano Alessandro Benigni
Regia Marco Carniti
Scene Manuela Gasperoni
Costumi Maria Filippi
Luci Fabio Rossi
Pesaro, Teatro Rossini, 10 agosto 2021