Roma, Terme di Caracalla – Mass

Un contenitore teatral-musicale che destruttura e riformula le pareti rituali di una liturgia di tradizione, come da Messale Romano, per rileggervi a specchio il senso universale della vita. Indicando quindi all’orizzonte comune, come da chiusa canonica a celebrazione finita (“The Mass is ended; go in peace”), la via dell’amore pur fra le tante opposizioni o disparità. E lo fa accentuando in girandola babelica lo scontro e l’innesto fra generi, stili, condotte e linguaggi poliformi e molteplici ruotando, con relativa frizione, intorno all’unico asse di un’umanità che si ripete nel tempo, divisa com’è ovunque da muri e da sempre sfilacciata tra il dubbio e la fede, i contrasti e le unioni, i conflitti e la tregua. Il corrispettivo musicale va di conseguenza a marciare a suon dei codici più distanti per cifra e cronologia, spaziando dall’antica cantillazione o dalla polifonia sacra e profana alle scintille del rock, dall’hippie-spiritual al musical, dal gospel alle marching band di New Orleans, dal serialismo dodecafonico al microtonalismo ebraico e al cool jazz. Per di più, lungo un crinale testuale che in via analoga a confronto o a incastro si dirama fra latino ortodosso, lingua madre inglese e radici ebraiche a firma dello stesso compositore della partitura con aggiunte di Stephen Schwartz più un cammeo del cantautore Paul Simon.

È quanto emerge con estrema chiarezza dal pur complicato dedalo inventivo sia drammaturgico che musicale di quella sorta di rito al quadrato, in proiezione metaliturgica, che è Mass: A Theatre Piece for Singers, Players, and Dancers di Leonard Bernstein, Messa originalissima perché spettacolo oltre la forma per diventare sintesi assoluta e moderna, difatti neanche del tutto compresa al suo esordio avvenuto nel settembre del 1971 in anteprima a Washington, previa commissione della vedova Jacqueline Kennedy da tre anni già Onassis per l’inaugurazione del Kennedy Center con dedica al presidente e consorte assassinato, a firma del regista Gordon Davidson, direzione di Maurice Peress e coreografie del titanico Alvin Ailey. Diciamo pure un’impresa non semplice da rimettere in piedi fuori contesto e a mezzo secolo di distanza per quanto, dato il messaggio, assolutamente in linea allora come ora.

Ciò detto, a proporla in chiave analitica e storiografica esatta, oltre che a eseguirla per la prima volta in forma scenica in Italia, è stata la Fondazione del Teatro dell’Opera di Roma con produzione inedita realizzata dall’efficace regia di Damiano Michieletto e dalle splendide coreografie d’ultima generazione di Sacha Riva e Simone Repele, in unione alla brillante direzione musicale di Diego Matheuz. Il tutto con pieno successo di pubblico, tornato dopo due anni di assenza nella cornice di massima suggestione delle Terme di Caracalla per l’apertura della stagione estiva, nonché in presenza di tutte le compagini artistiche interne (Corpo di Ballo diretto da Eleonora Abbagnato, Orchestra, Coro istruito da Roberto Gabbiani, Scuola di Canto Corale e artisti usciti dal progetto “Fabbrica” Young) accanto a un selezionato gruppo di ventuno vocalist per gli street singers e intorno alla voce baritonale di timbro chiaro ideale del Celebrante solista, Markus Werba.

In pratica, un modello di spettacolo prismatico e modernamente sincretico, ben più avanti di un eclettico melting pot in strano mix di lessico e stile, come all’epoca del varo fu invece inteso e giudicato (hodgepodge, ossia guazzabuglio, fu la definizione data da Harold Schonberg nella sua stroncatura critica sulle colonne del New York Times) finendo addirittura nell’agenda nera degli agenti dell’FBI per versi ritenuti complottistici alla luce delle rivoluzioni di fine anni Sessanta e della Guerra in Vietnam. Di fatto, a osservarla con lo sguardo dei nostri giorni, la pièce teatrale entra nel solco classico più antico armonizzando, come poche, i codici delle tre arti temporali e arriva ad attivare una sorprendente rete di rimandi poliformi, fino a suscitare curiosità e interesse, in qualcuno magari anche diffidenza o fastidio, per un assetto decisamente avveniristico per il suo tempo. Ben rivelandosi, e lo diciamo con le parole di oggi, opera globale.
Fra buca e palcoscenico, estrema è pertanto la diversità dei linguaggi volendo dimostrare al termine, a mo’ di teorema e a messa finita, una conciliazione possibile, al di là delle divisioni e dei muri che sfilano ciascuno con le proprie coordinate di luogo, anno e lunghezza, in videoproiezione sulla parete di cemento. Tra Polonia e Bielorussia, Haiti e Repubblica Dominicana e così via, Melilla compresa. Unione possibile nella fede di un amalgama totale fra parole e musica di ogni dove, così come attesta l’aurorale, bellissimo canto all’unisono di tutte le voci, per diverse che siano. Di qui la forza d’attualità e d’impatto della nuova rilettura restituita con indubbio merito dalla produzione capitolina facendo leva sulla sagacia d’interazione fra tutte le sezioni artistiche in gioco.

La visione registica di Damiano Michieletto, debitamente aggiornata assegnando all’elemento-muro la costruzione dei motivi di contrasto e separazione fra i popoli, s’inventa con lo scenografo Paolo Fantin (avvalendosi delle nette luci di Alessandro Carletti e dei video di Filippo Rossi) un luogo aperto di culto che è al contempo un cantiere, laddove tre monumentali gru calano dall’alto e dinanzi alle alte vestigia delle Terme romane altrettanti blocchi di cemento destinati a compattarsi nel muro solcato dalle scritte di divisione e protesta dei contestatori di strada. Il sistema dei ruoli è di conseguenza scolpito a dovere per gesto ed immagine anche in virtù dei bellissimi costumi di Carla Teti e della potente quanto raffinatissima dimensione coreografica del tandem Riva-Repele coniata originalmente filtrando tecnica accademica con le prese sghembe e le pose spigolose eredi del neo-espressionismo tedesco e della danza post-modern americana.

Da un lato, c’è dunque l’umanità di tutti i giorni, quella dei ballerini/accoliti in abito verde mandorla con relative varianti pastello che camminano velocemente intersecando i rispettivi percorsi urbani, incontrandosi intorno all’altare, lottando contro i contestatori di strada. Acuminati nelle linee delle gambe, bravissimi nella precisione angolare delle braccia, compatti nelle formazioni a grumo, a nube o nella plasticità impressionante dei tableaux vivants davanti alla crocifissione o in attesa, come naufraghi, della speranza finale. In funzione antagonistica, gli street singers (Street People Chorus) appaiono invece come un coro-maschera volutamente senza particolari segni di distinzione, sgargianti nei costumi a lamina dorata, clowneschi nel trucco, dissacranti tanto nei caschetti alla Lolita biondo platino quanto nei gesti meccanici, scomposti, irruenti, così come dettato dalla rock band e dal canto pop. Anche in tal caso, per la costola da musical, tutti bravissimi. Ampia menzione meritano naturalmente, data la peculiare bontà degli esiti, i solisti del Progetto “Fabbrica”. Vale a dire, il soprano Marianna Mappa, il mezzosoprano Irene Savignano, il baritono Arturo Espinosa e il basso Alessandro Della Morte, il notevole sopranista Angelo Giordano (Descant) e Gianluca Sticotti (Preacher). Magnifica ed eterea inoltre la candida coppia emblema di pace e di amore (Love Couple) formata dall’étoile Alessandra Amato e dal primo ballerino Claudio Cocino, bravo il corifeo Massimiliano Rizzo nella parte del leader e le diverse coppie del Corpo di Ballo in varia ma sempre esatta formazione. Stesso discorso per il Coro – ottima la cura garantita alle diverse formazioni canore da Roberto Gabbiani – diviso in soluzione oratoriale su spalti frontali e per le voci bianche della Fondazione, ben in volo in zona sovracuta e spesso atonale. Infine, al centro, il Celebrante di Markus Werba, esplicito nella funzione narrante, passionale nell’escalation del dubbio culminante nel rigetto dei paramenti sacri, intenso nelle parti in monologo recitato o cantato così come nella pantomima della crocifissione, musicalmente veicolata attraversando un mestissimo e rarefatto De profundis oltre il quale poter rinascere, sfondando al termine quel muro dell’odio come un groviera, attraversato com’è dagli stessi corpi degli accoliti-danzatori.

In tanta disparità di componenti, compresi gli interventi preregisrati, svetta con lode il pieno dominio musicale garantito, per stacchi, stile e smalto vivo di tinte oltre che per gli scontorni dinamici, da Diego Matheuz sul podio. La dovizia di scansione metrico-ritmica e la caratterizzazione stilistica di ogni singola articolazione interna alla grande architettura concepita nelle 17 parti del rito con relative strutture interne, tropature e meditazioni strumentali comprese, svelano con dotta sensibilità la complessità dello scorcio sonoro operato da Bernstein nel passare in sorprendente coerenza dagli urti del Kyrie dodecafonico preregistrato al melos genuino del semplice inno intonato dal Celebrante, infiammando i ritmi battenti e festanti dell’Alleluja in chiave jazz, lavorando a contrasto tra la fanfara del Kyrie Rondò con voci bianche, la preghiera dolente (Almighty Father) degli accoliti con Coro, le sequenze di rito e le farciture a strappo del gruppo di strada. Dopo la lettura dal Vangelo e l’omelia il Credo procede, con mirata consapevolezza, in formula fredda e meccanica, a pendant con i tropi sull’indifferenza di Dio per la sorte degli uomini, e così a seguire. Ma non solo. A emergere in esatti peso e misura sono anche le tante reminiscenze metabolizzate dal Bernstein direttore e compositore. A partire dalla prima simbiosi formale siglata dall’Inno alla gioia beethoveniano e fino a toccare la pietra ruvida dell’Œdipus Rex e del Sacre di Stravinskij, passando per l’Elektra di Strauss, i suoi stessi Chichester Psalms, la Kaddish, il Candide.
Tutto ciò senza mai perdere di vista la linea coesa fra narrazione e scena. E, soprattutto, quel taglio privilegiato di comunicazione vivace e diretta che, se perduta, ogni rito trasfigura in teatro. [Rating:4/5]

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione estiva 2022
MASS
A Theatre Piece for Singers, Players and Dancers
Musica Leonard Bernstein
testo di Leonard Bernstein versi e testi aggiuntivi di Stephen Schwartz
Prima rappresentazione assoluta, John F. Kennedy Center for the performing arts,
Washington D.C., 8 settembre 1971

Direttore Diego Matheuz
Regia Damiano Michieletto
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Coreografia Sasha Riva e Simone Repele
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Filippo Rossi

Il Celebrante Markus Werba

Street People Chorus
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’opera di Roma
con la partecipazione di “Fabbrica” Young Artist Program
e della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

Roma, Terme di Caracalla, 3 luglio 2022