Divertente, esilarante, ballatissimo, musicalissimo. E un po’ folle nella rilettura drammaturgica moderna ma, a ogni battuta e passo, strutturato con arte e qualità. In sostanza, più di qua (per mashup musical-cinematografico anni Venti-Cinquanta del Novecento hollywoodiano) che di là (nella folcloristica Spagna estratta da Beaumarchais quindi rimbalzata dopo gli apici settecenteschi nei versi di Cesare Sterbini) è il Figaro con tanto di paletto-insegna a strisce e a spirale nei colori di Francia secondo il fantasioso e in sé vivacemente spettacolare Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini riproposto, con smalto intatto e brillante, nella produzione firmata da Lorenzo Mariani e, in fondamentale tandem registico-coreografico, da Luciano Cannito alle Terme di Caracalla per la chiusura della stagione estiva targata dal Teatro dell’Opera di Roma. Dunque rinnovando, se non ulteriormente rafforzando, il successo registrato al varo in pari luogo nel luglio 2014, in doppia replica fra diversi palchi nel 2016 e in soluzione semiscenica nel 2020.
Fermo restando il baricentro di una conduzione musicale subito rivelatasi – in barba alla microfonazione– raffinata in ogni dettaglio, ispiratissima e risoluta come Rossini comanda, motore buffo e scoppiettante dello spettacolo è risultato senz’altro l’escamotage del travestimento, perno del comico per antonomasia. Attraversato e declinato a intarsio in tutte le maniere possibili, il ben riuscito découpage ha preso vita e forma grazie anche alle assai efficaci soluzioni sceniche di William Orlandi, ai divertenti oltreché perfetti costumi di Silvia Aymonino e alle luci nette di Linus Fellbom. Il via spetta ovviamente alla Sinfonia che qui però, necessariamente risolta a scena aperta e “d’azione”, va a strizzare l’occhio alla Roma antica e agli amori di Cesare e Cleopatra, sotto le cui apparenze pompeiane si scopre però un più moderno toga-party, con orgia redarguita a randellate all’arrivo di un manipolo di poliziotti assemblati su un’auto d’epoca, di peso usciti da un muto alla Charlie Chaplin. E ciò mentre il barocchista “metal” Stefano Montanari magnificamente andava a condensare e anticipare scatto ritmico, stile esatto e polpa cantabile di quel che sarebbe stato.
E siamo solo al principio di un lavoro ben più ampio e complesso per quanto, nello svolgimento di azione e narrazione, fluido come un gioco. Perché l’ipercinetico caleidoscopio di invenzioni drammaturgiche fra situazioni e caratterizzazione dei personaggi, pur a fronte di pochissimi elementi di scena ma in misura extralarge (un divano enorme, gigante è lo stesso paletto totem da barbiere su cui arriva Figaro, un pianoforte bianco smisurato, le abbondanti poltrone girevoli e le ampie forbici per il taglio dei capelli, la torta-carro finale) e dinanzi alla celebre grande insegna sul fondo che domina la città di Hollywood, frulla e sfila macinando le reminiscenze più disparate del grande schermo a stelle e strisce. Si va dai grandi film musicali con la mitica coppia Fred Astaire-Ginger Rogers, moltiplicata nelle varie coppie di ballerini, o con il simpatico Gene Kelly (dalla sua celeberrima Singin’ in the rain per la scena del temporale con ombrelli e impermeabili nel II atto al ripetuto passo scanzonato a vuoto del marinaio americano) alle geometriche pirotecnìe acquatiche di Esther Williams e compagne per il focus d’esordio su Don Bartolo, in cuffia e ridicolissimo costume intero, per poi arrivare al canto da crooner alla Sinatra, Crosby o Calloway per la sortita del Conte in giacca a paillettes d’oro. E ancora, dal mega pianoforte a rinvio della storica pellicola King of Jazz (che fa il paio con il successivo The Great Ziegfeld), in cui timidamente nel 1930 esordiva un giovanissimo George Gershwin, per la lezione di musica metà danzata e metà suonata con i piedi come per l’organo e in stile macchina da scrivere immaginaria di Jerry Lewis, al palo con entrata alla Dulcamara per l’esordio del mattatore Figaro. Fino al top dell’invenzione toccato con lo spogliarello burlesque per una pruriginosa aria di una Berta a sorpresa da Moulin Rouge, ringiovanita e corretta in rigida (poi sciolta) segretaria di Don Bartolo. Inoltre sempre qua e là, sia pur nel rispetto assoluto del dettato di testo e musica nell’edizione Zedda, battute extra e un paio di colpi sonori fuori scena come le forti cannonate all’arrivo su jeep militare dell’Almaviva finto soldato e la sirena spiegata al bussare della “forza” alla porta del Finale I, terminato a torte in faccia per il povero padrone di casa. Il tutto fra passi di tiptap, linee iper classiche da gruppo delle Willy dalla romantica Giselle, capriole, funambolismi e piume di struzzo da varietà. Più, al termine, immensa torta nuziale mobile con piani in rapido crescendo che tanto ricordano l’estensione dell’albero sognato dalla piccola Clara in Schiaccianoci, qui con su gli sposi inondati da una doppia pioggia laterale di lustrini mentre Bartolo in tenuta da sergente Garcia pare consolarsi, anche lui per una volta in lieto fine, con Berta pronta a sfoggiare un festoso abito brasiliano alla Carmen Miranda.
In parallelo, su pari onda, corre la reinvenzione dei personaggi entro una nuova galleria di ritratti tutti di strepitosa fattura, nonché portati in scena e recitati a meraviglia potendo con tranquillità contare su voci navigate e ben in quota sia per quel che riguarda i ruoli da protagonista, sia dei comprimari al fianco del prestante contorno garantito dal Coro maschile della Fondazione, ottimamente preparato dal maestro Roberto Gabbiani, quindi dai ballerini e dai figuranti della Compagnia diretta da Eleonora Abbagnato. Tutti notevolissimi.
Dunque, destrutturando e ricostruendo di sana pianta lo spirito del comico rossiniano da altra prospettiva e sotto la lente ritmico-visiva di un’arte di cent’anni dopo, il congegno musical-teatrale non scivola mai in pastiche e anzi funziona dall’inizio alla fine senza cali né falle. A dimostrarlo, pur nella molteplicità delle scene “tassello”, l’intero e coeso arco di tensione che tiene ben in pungo l’attenzione e i sorrisi del pubblico, ancora una volta numerosissimo, dalla prima all’ultima battuta in partitura. Merito degli artefici, è chiaro, ma non meno degli interpreti tornati o selezionati ad hoc.
Il Conte di Almaviva, si diceva, appare come un crooner di successo che, con scioltezza da grande star, impugna e stende il radio-microfono old style jazz fra due quartetti di vocalist. A interpretarlo, nuovamente, è il più che rodato René Barbera, tenore messicano-americano dall’emissione chiara ma non troppo, dal volume generoso assai, forte di una cantabilità sincera e sinuosa che spicca per la propensione iberica. Variazioni e acuti in lui marciano a piè facile e sospinto. Ne risulta una cavatina d’esordio (Ecco ridente in cielo) opulenta per espansioni, appoggiature, abbellimenti sulle chiuse a piacere, fra le note staccate e i lunghi florilegi di sedicesimi fino all’ampio e lungo sol all’acuto; quindi, una Canzone (Il mio nome saper voi bramate) prodiga di ritmi e spagnolismi alla ripresa della Serenata – tanto da suscitare in Figaro un sonorissimo e inaspettato “Olé” – oltre ai duetti carichi di suono e verve (“All’idea di quel metallo” con Figaro tra i lingotti d’oro, “Ehi di casa… buona gente” e “Pace e gioia sia con voi” al cospetto del burlato Don Bartolo) mentre, pur potendo, non esegue la virtuosa e bellissima aria prossima al Finale II. Più che spigliato, inoltre, si presenta sul fronte scenico, fra il ballo sul pianoforte, i vari travestimenti e gli svelamenti culminanti nella divertente quanto tenera constatazione di avere una giacca di paillettes sotto il trench (spalancato tipo maniaco) nel dichiararsi al termine dinanzi all’amata non Lindoro bensì Conte d’Almaviva.
Argutamente chiusa in una grande gabbia, così come da libretto nella casa dove vive serrata sotto stretta sorveglianza del vecchio e tronfio tutore, la Rosina del mezzosoprano Cecilia Molinari trilla e gorgheggia agilmente sfoderando una padronanza tecnica intelligentemente tradotta in rara consapevolezza e controllo dei passi di coloratura con cui vivacemente decora le sue cento trappole. Non comune, tra l’altro, l’attenzione che presta alle indicazioni dinamiche, piena è la sicurezza lungo l’intera estensione, zone di passaggio comprese, e con sapienza governa il fiato per tornire acuti sempre squillanti e ben arrotondati. Neanche a dirlo, è vestita come una Papagena-canarino pronta a vantare piume, sensualità e fermezza di carattere in ogni gesto ed espressione, dondolandosi sull’altalena, agitandosi tra le sbarre o accattivandosi l’uomo di turno. E, da vera volpe sopraffina, anticipando con astuzia le mosse dell’intrigo senza perdere un solo accento e colore di quel che intona. La sua cavatina (Una voce poco fa) prende forma con piglio da opera seria per poi, d’improvviso, librarsi rapidamente in volo verso un realismo comico di stoffa autentica, concreta per ritmica e fraseggio, fitta di fioriture e sospensioni oltre che, grazie al cielo, di intenzioni personalissime. Una delizia per gli occhi e per le orecchie sono pertanto anche il duetto con Figaro, la sfaccettata aria di rito per la lezione di musica (Contro un cor che accende amore), il risolutivo terzetto “Ah qual colpo inaspettato”, il Finale ultimo.
Il barbiere Figaro, differentemente da quanto in principio programmato, può contare sulla voce del baritono Markus Werba che di fatto, dopo i consensi incassati con il Celebrante in Bernstein, ha aperto e chiuso la stagione di quest’anno anno a Caracalla. Il suo factotum, con bombetta in testa e abito in tinta con il palo, è realmente “pronto a far tutto”: salta di qua e di là, guida dinamiche e azioni ma, soprattutto, conquista la cavea con l’eloquio di una parola recitata e di un canto nei numeri chiusi più terso e curato del solito, quasi portato e compiaciuto nelle sonorità, nei lunghi fiati, nell’arguzia delle battute, nella gestualità affabile e ruffiana assai. La sua cavatina spicca per la plasticità della dizione anche nella rapinosa velocità presa in coda e per l’ampiezza dei gesti canori, scavati, dilatati, stretti, ben cantanti, inframmezzati da un sonoro fischio e coronati da un infinito, secondo sol sempre all’acuto sulla prima sillaba della “città”. E così negli assieme, dove si distingue per grinta, tinta e musicalità (nel duetto con il Conte, a parte il rumoroso singhiozzo in aggancio all’ubriacatura, con il Conte ricorda la complicità d’intreccio che sarà poi dell’Elisir donizettiano).
Altro fenomeno a sé è il Don Bartolo del baritono Marco Filippo Romano, a metà strada fra un egocentrico Paul Whiteman e un panciuto Al Capone con sigaro in bocca, abito bluettone, baffetto sottile e capello nero brillantinato. Anche lui attraversa varie fogge a partire dal Giulio Cesare d’attacco (tuttavia, la migliore, resta pur sempre quella in tenuta da nuoto resa ancor più ironica per l’indiavolata vertigine verbale e musicale dettata dall’Allegro vivace che chiude l’aria “A un dottor della mia sorte”). Parimenti di magnifica qualità è il suo contributo canoro e attoriale per dizione, temperamento, forza e omogeneità. La sapienza con cui valorizza sillabe, inflessioni e note ne fa un dottore di comicità irresistibile quanto di primissimo calibro.
Ormai interprete consolidato nel ruolo del maestro di musica Don Basilio, Alex Esposito garantisce da par suo gran suono e sostanza al personaggio, capelli platino cotonati e dritti in testa, occhio spalancato e bacchetta sempre agitata in pugno, persino quando viene portato via fra le strette fasce di una camicia di forza. La sua aria della calunnia prende gradualmente forza e carattere calcando lo scarto fra staccato e legato, fra accenti e intonazioni, voce in lunga proiezione o serrata in maschera con chiuse lungamente tenute. Nondimeno sorprende la Berta del soprano Francesca Benitez, innanzitutto per una bravura mimo-attoriale e coreutica tale da non far credere a primo impatto che sia proprio lei a cantare. Il passaggio da segretaria inappuntabile e bacchettona, in abbottonato tailleur a gonna lunga e occhiali, a spogliarellista disinibita fra i ventagli a piume di struzzo color rubino è gestito ad arte unitamente a un mezzo canoro di non minore statura. La sua unica aria e pure di sorbetto (Il vecchiotto cerca moglie) salta infatti con meritata autorità fra i piatti forti e più pepati dell’opera. Brava, bravissima, in verità.
Completavano la squadra in scena il sontuosamente sonoro Fiorello dell’ottimo Davide Giangregorio (Fiorello), l’ufficiale di Leo Paul Chiarot più un fido e un po’ lugubre Ambrogio mimo trasformato nel maggiordomo Max von Mayerling di un’altra iconica pellicola, Sunset Boulevard (Sul viale del tramonto).
Infine spettacolo nello spettacolo, a radice, cornice e a garanzia del tutto, la splendida direzione di Stefano Montanari, raffinata, puntuale e vorticosa a un tempo, intelligente, di immensa sensibilità stilistica e musicale. Il gesto è morbido e quasi canta dinanzi a un’Orchestra che sollecita in ogni sezione (di prima sfera i legni) s’impegna al meglio e si diverte a tradurne brillantemente le idee folgoranti ad ogni numero e dettaglio. La tagliente precisione degli stacchi metrico-ritmici e dei singoli attacchi strumentali mette in piedi un Rossini travolgente, meccanico ove necessario e vertiginoso nelle strette quanto nei crescendo, così come di morbido respiro nei cantabili e a sostegno assoluto degli interpreti.
In special modo apprezzabili i suoi letteralmente strepitosi recitativi secchi (altro che noia) reinventati anticipandovi di tutto (schegge delle arie a seguire, ritmi jazzy, formule da tanguero, coreutiche e accordi o glissati di baule, più tema d’attacco della Quinta di Beethoven), quindi suonati personalmente alla tastiera digitale con gamma dal cembalo al fortepiano, infilandosi (e sfilandosi) velocemente attraverso il collo e giù per la schiena la bacchetta, a mo’ di freccia.
Successo ampio e meritato per tutti gli autori e gli artisti, dentro e oltre la scena.
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione estiva 2022
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Conte d’Almaviva René Barbera
Rosina Cecilia Molinari
Don Bartolo Marco Filippo Romano
Figaro Markus Werba
Don Basilio Alex Esposito
Berta Francesca Benitez
Fiorello Davide Giangregorio
Un ufficiale Leo Paul Chiarot
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Stefano Montanari
Direttore del coro Roberto Gabbiani
Direttore del Corpo di Ballo Eleonora Abbagnato
Regia Lorenzo Mariani
Collaboratore alla regia e coreografo Luciano Cannito
Scene William Orlandi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Linus Fellbom
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Terme di Caracalla, 2 agosto 2022