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Roma, Terme di Caracalla – Carmen

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Fortemente arcaica nella ritualità di una morte esorcizzata in festa di tradizione precolombiana e ispanica, di attualità assoluta nell’affondo di una lama registica che incrocia e scopre i nervi di un mondo immutato nel suo circo dagli istinti radicali, fra vita e colori, scheletri e ombre. Fatto com’è, oltre l’asse dei luoghi e del tempo, di passioni a fior di pelle e violenze, libertà cercate e negate, scarti sociali, contrabbandi e confini, di sesso e un possesso facile a sforare in furia femminicida.
Dunque poco importa essere nella Siviglia goyesca di Mérimée poi di Meilhac e Halevy, o nell’odierno e arido Messico emarginato dagli States, laddove si va a restituire con ulteriore impatto il doppio segno sanguinario della corrida e del delitto per gelosia nella parata variopinta di un emblematico Dia de Muertos, liberatorio alla Frida Kahlo (così è abbigliata la protagonista al termine) e di una cifra ossianica tanto ben disegnata nel coevo (alla regia) cartone Coco. E sempre sotto il vetro di una lente attualizzata e acutissima, la scena ci spinge tra le imponenti gole del Gran Canyon, al cospetto delle sfingi presidenziali del Monte Rushmore o, al quarto atto, dinanzi all’icona scheletrica della Catrina a colpo in proiezione trasfigurando, genialmente, gli alti totem dell’antica Roma, fra cactus, insegne al neon, cartelli stradali di opposto segno (North vs South) e personificazioni della morte in video per luoghi di deserto e solitudine. Il tutto con suoni di cronaca fuori campo come il borbottìo della camionetta che scarica profughi (più un cadavere) al confine e i messaggi radio di discriminazione in era Trump.

Diverso dunque il piano prospettico ma nulla cambia nella storia, quanto a destini, per le minoranze degli esclusi. Soprattutto se si è donna e, per di più, gitanilla fuori legge quale Carmen è. In special modo la strana, bellissima e folgorante Carmen di Bizet ricucita dalla regista argentina Valentina Carrasco su misura delle Terme di Caracalla per il Teatro dell’Opera di Roma in apertura dell’estate 2017, tornata con pari successo l’anno a seguire e ancora in vetta impressionante per efficacia teatrale, record di presenze e incassi nel corrente luglio per la ripresa di Lorenzo Nencini, con cast parzialmente riformulato.
Vetta che si spiega perché lo spettacolo sfodera effettivamente un congegno inossidabile, atto a mescolare e a specchiare, con non scontata abilità, archetipi e quotidianità, strati diversi di cultura e cronaca grazie anche agli elementi scenici ideali di Samal Blak fra palco e video, ai costumi trasversali di Luis F. Carvalho, alle peculiari coreografie di Erika Rombaldoni Massimiliano Volpini (che spaziano dalle movenze ispaniche all’urban dance, dalla disco a una novella danza delle furie per gli scheletri) e alle luci efficacissime di Peter van Praet (l’ingresso del Coro delle sigaraie ha la risoluzione dorata e impalpabile di un film mentre, il doppio fuoco cromatico, va a unire nel finale la decapitazione in alto del toro-vitello d’oro e, in basso, all’accoltellamento della donna), nell’occasione riprodotte da Valerio Tiberi.

Interessante poi, al di là del dettaglio fonico inevitabilmente alterato tra amplificazione e acustica all’aperto, è che un tale incrocio di forme e concetti si ritrovi nella direzione musicale serrata ma di vivace tinta latina di Jordi Bernàcer (nel 2017 sul podio in seconda alternanza con Jesús López-Cobos) in virtù di una sorta di corrispettivo stilistico attento a cavar fuori dalla partitura in edizione Choudens, dunque con i recitativi musicati da Guiraud per la versione viennese e con buona pace degli originali parlati, tanto la gestualità concreta e gli elementi leggeri dell’opéra-comique quanto le delicate sonorità dell’opéra-lyrique accanto alle incandescenze coloristiche e agli affondi fino alla soglia del quadruplo piano fra i meandri del tragico. Ne risulta una Carmen giovane e svettante per temi, timbri e dinamiche quanto, al contempo, dalla sensualità molto raffinata, dunque mai ruffiana né sgargiante. Piuttosto, con sapienza polarizzata sulla scansione spiccata degli appoggi metrici, curata nel rilievo dei singoli strumenti come nei tracciati concertanti (mirabile il solo del primo violino, lucenti gli ottoni, ottimo il lavoro di percussioni, archi e legni, fagotti in primis), vigorosa nel fugato e nei passaggi a tutta forza, esatta nel sostegno al canto come nella vivida pittura degli entr’actes.

Applaudita protagonista qui come all’esordio cinque anni fa dello spettacolo, il mezzosoprano Veronica Simeoni trasforma la sigaraia e zingara selvaggia in donna volitiva, libera e moderna. La sua Carmen scalza, in camicetta limone annodata all’americana e in pinocchietto jeans è una femmina disincantata che ben conosce gli uomini e i meccanismi mercenari della società circostante, sia pur conservando come rimossa in segreto una propria, purissima autenticità (la bambina di bianco vestita che le si avvicina nei punti di snodo drammaturgico-affettivo). Di conseguenza, canta l’habanera con voce acuminata e sinuosa musicalmente andando dritta al sodo e, nell’inneggiare all’amore libero, va accostando coppie omosessuali, si rotola o si adagia su mucchi di altri corpi. Per la Seguidilla, giocata in provocazione avvolgente sia nel gesto che nel canto, sfila via la camicetta e resta in reggiseno bordeaux per lavarsi con acqua vera dal fango e per sedurre irreversibilmente il brigadiere Don José sigillando il tutto con un vero, infinito bacio. E se magari avrebbe potuto spingere di più sulla Chanson bohème intonata come tra sé alla taverna di Lillas Pastias, dove arriva in ape vestita di rosso a mo’ di odalisca-gitana con serpente al collo per poi esibirsi tra pali e cubi in lap-dance con le sue compagne Frasquita e Mercédès, a seguire è pari a un giro di vite in crescendo. Nel duetto in coda all’atto II interviene con la sua ampia estensione e con una miriade di esposizioni espressive, cantando, impennandosi, facendo impertinente il verso alla ritirata con schegge recitate da mélodrame. Al suo fianco il tenore Saimir Pirgu, fighissimo con i suoi Ray-Ban scuri e in divisa d’agente di polizia americano, è invece un Don José di tenerezza empatica, dal fascino latino e dal timbro chiaro eppure a pasta densa, eccellente in zona acuta quanto puntualmente apprezzabile per l’eleganza del fraseggio e per una cantabilità poetica chiusa in preziose legature di portamento o spinta nei picchi passionali verso squilli rotondi, luminosi e potenti. Anche nel suo caso la prova è una fiamma in crescendo, con esiti emotivi e scenico-vocali di pregio ammirevole.
Diversa dal solito è anche la Micaëla del soprano Mariangela Sicilia che, costruendone la figura innanzitutto lungo una linea di canto tecnicamente tagliente e timbricamente al platino, non è la solita paysanne timida e remissiva semplicemente lirica quanto, piuttosto, una fanciulla del West in camicia a quadri, gonna jeans e camperos che sa il fatto suo, mette in riga Morales e soldati, ama e contrasta alla pari Don José nel magnifico duetto al I atto, laddove la lama della belcantista incontra lo slancio sentimentale dell’amato in delicato stile opéra-lyrique, o nel confronto in coda all’atto III. La sua grande aria “Je dis que rien ne m’épouvante”, limpida, accorata e con acuti perfetti, resta una perla a sé.
Interprete rodato del ruolo ma anche regista a Ravenna della stesso capolavoro di Bizet, il baritono Luca Micheletti  raccoglie una speciale quota di consensi con un Escamillo che non è solo di alta statura e bella presenza fisica, ma torero di gran voce. I suoi couplets arrivano con timbro virile e dizione mordente, con texture piena e omogenea, con ampi legati e fiati gestiti ad arte.
Bravissime per spirito piccante, intonazione e colori anche Anna Pennisi (Mércèdes) e Daniela Cappiello (Frasquita, in sostituzione della prevista Giulia Mazzola), mentre alterne le fortune rilevate nelle prove di Michele Patti (Dancairo) e Marcello Nardis (Remendado) che si lodano però per il Quintetto cantato, a onor del vero, a meraviglia lì dove la Carrasco accelerava al massimo sul pedale dell’eros. Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma i bravi Alessandro Della MorteArturo Espinosa completavano il cast cantando nei rispettivi ruoli di Zuniga e Morales.
Buona nel complesso la resa del Coro della Fondazione capitolina istruito da Roberto Gabbiani, ottime le voci bianche della Scuola di Canto Corale, efficace l’originale prestazione del Corpo di Ballo. Tanti e per tutti gli applausi al termine da una cavea a spalti stracolma.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione estiva 2022
CARMEN
Opera in quattro atti
Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy
Dal romanzo di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
Editione Choudens, Parigi

Carmen Veronica Simeoni
Don José Saimir Pirgu
Escamillo Luca Micheletti
Micaela Mariangela Sicilia
Frasquita Daniela Cappiello
Mércèdes Anna Pennisi
Dancairo Michele Patti
Remendado Marcello Nardis
Zuniga Alessandro Della Morte*
Morales Arturo Espinosa*
*Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Jordi Bernàcer
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Valentina Carrasco
ripresa da Lorenzo Nencini
Scene Samal Blak
Costumi Luis Carvalho
Luci Peter van Praet
riprese da Valerio Tiberi
Coreografia Erika Rombaldoni e Massimiliano Volpini
Allestimento teatro dell’Opera di Roma

Roma, Terme di Caracalla, 19 luglio 2022

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