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Roma, Teatro dell’Opera – Turandot

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“Pu-Tin-Pao” tuona per tre volte il Coro, dopo la lettura del funesto editto declamato da un Mandarino in apertura d’opera, al culmine di un’esaltazione dissonante e battente richiamando il nome – e che nome – del boia carnefice alla reggia imperiale di Pechino per mozzare al sorger della luna l’ennesima testa di sangue reale vinta dalla legge degli enigmi imposta, ai suoi pretendenti, dalla principessa e tiranna di gelo Turandot. Il tutto, “al tempo delle favole”. Ma non troppo. Perché quell’antica fiaba persiana, rimbalzata nel Settecento veneziano nella commedia drammatica Turandotte dell’abate Gozzi antagonista di Goldoni, nella Germania romantica nella versione di Schiller e, di lì, negli anni Venti del Novecento in traduzione e sintesi librettistica di Simone e Adami per finire nella potentissima, ultima musica di Puccini, si ritrova nell’allestimento in scena al Teatro dell’Opera di Roma come specchio esatto di ogni brutta storia fatta di violenza, dittatura, sacrificio e morte. E di ogni lotta coraggiosa, d’altro lato, pronta a combattere e vincere eroicamente, in un mondo continuamente prossimo al baratro, qualunque forma di oppressione: culturale, politica, sociale, pandemica o mediatica che sia. Con la forza dell’unione o, seguendo l’opera nella soluzione ai tre fatali indovinelli, della speranza, del sangue e di un amore insito di riflesso nel nome della stessa Turandot o del vittorioso Calaf principe ignoto.

Con tanto di finale sospeso, al pari delle vite di noi tutti nell’attualità in corso di guerra e pandemia, va dunque vista e letta come speculum impietoso ma esatto della nostra contemporaneità la provocatoria quanto fortemente archetipica Turandot di Giacomo Puccini commissionata ad hoc due anni fa e proposta solo ora causa Covid al Lirico della Capitale con l’originale chiusa incompiuta (là dove si fermò Toscanini alla prima assoluta) e in forma d’arte totale inedita, a firma per regia, scene, costumi e video di una personalità di calibro mondiale, fra le più rilevanti e contestate del nostro tempo: Ai Weiwei. Regista nato nel 1957 a Pechino (qui per la prima e a suo dire unica volta alle prese con l’opera per un titolo a lui caro perché a trent’anni per Zeffirelli vi fece da comparsa al Met), artista poliedrico, attivista per i diritti umani, blogger, giocatore d’azzardo, architetto, performer. Ma innanzitutto dissidente, figlio di intellettuali e nel 2011 per 81 giorni arrestato e detenuto, oltre al padre poeta a suo tempo deportato in terre remote con relativa famiglia perché avverso al regime maoista, egli stesso messo dal nuovo potere sotto stretta sorveglianza fino al 2015. Di fatto Ai Weiwei, che oggi vive in una sorta di esilio a Berlino, è realmente fra le massime espressioni critiche di un’arte che è aperta denuncia di quanto avviene in attrito fra vita e politica, Oriente e Occidente, cultura e repressione nell’era che ci appartiene. Ed è quanto ci mostra, coagulando e sovrapponendo una molteplicità di segni e gesti, fra costumi e immagini, nella sua Turandot: stranissima e brutta persino, stando ai dettagli mostrati grazie ai focus in tv (con la trasmissione in differita a due giorni dalla première del 22 con primo cast, su Rai5 per la regia televisiva di Claudia De Toma), ma bella e decisamente efficace quanto a colpo d’occhio complessivo dal vivo in un teatro dove l’amalgama di musica e scena risulta ipnotico e apocalittico. Distopico, feroce, tagliente.

Avvalendosi delle sapienti luci di Peter van Praet e dei movimenti coreografici di Chiang Ching, artista eclettica e tra le principali per il cinema di Hong Kong e Taiwan, Weiwei escogita per i tre atti del capolavoro pucciniano una fitta gradinata della reggia imperiale, azzurra, praticabile e girevole, alla base bucata dalle sagome arancio fuoco dei continenti del nostro globo, a sprofondo come un gruyère ma, anche, a richiamo delle rovine di Roma. All’orizzonte, gli alti grattacieli di roccia monolitica sopravvissuta, a mo’ di Grand Canyon, su uno dei quali affiora in abiti da Albus Silente l’imperatore Altoum, messo lì sopra esattamente come il re del mondo sotterraneo nel finale del Labirinto del Fauno di Guillermo del Toro. A essi si unisce e si confonde alle spalle lo scorrere caleidoscopico di visioni in video di una Hong Kong attraversata da moti di protesta e da catastrofi umanitarie. Da armi, aerei militari, guerre e masse di rifugiati, da strade trafficate, riconoscimenti facciali e da medici in tuta e maschera anti-coronavirus, questi ultimi evidentemente inseriti nei due anni di chiusura forzata e attesa. In pratica, eventi tragici ma oggi più che mai reali e, dunque, intersecati ai simboli dell’Oriente e della sua stessa arte che si ritrovano, in astrazione o plasticamente, nelle immagini come nei costumi di scena fra coristi e figuranti rappresentanti una folla di ogni foggia, luogo e tempo. Occidentale e orientale, modernissima o come dissotterrata dai miti antichi. Fra le lanterne in processione dei mandarini, le proiezioni in circolo e i figuranti ci sono ad esempio i dodici segni zodiacali del calendario lunisolare cinese e ci sono, in analoga distribuzione, i famosi gesti col dito medio puntato in alto tratti dal suo progetto Study of Perspective, serie di scatti avviati dal 1995 a protesta dinanzi ai maggiori emblemi governativi e culturali del mondo, da piazza Tienanmen alla Casa Bianca, Tour Eiffel e Colosseo compresi. Gesti che ritroviamo analogamente in video, nelle mani del popolo, sul copricapo del ministro Pong e pure sugli ombrelli di scena per una sorta di novella danza sotto ma senza la pioggia da lui ideati, battezzati “Umbrella with a hole” e nell’occasione posti in vendita a tiratura limitata (500 esemplari) al costo di 600 euro, con firma autografa più garanzia di autenticità. Inoltre: missili e telecamere (parimenti in video e sui rispettivi copricapi di Ping e Pang), grande luna un po’ a scatti come quella di Verne ritratta ai primordi del cinema da Méliès, un gigantesco e ingiustificato rospo sulla schiena del principe ignoto/Calaf dai capelli rasta decorati con tasselli di Lego e, sempre in chiave zoomorfa, Turandot veste di color ghiaccio come una falena a origami, con farfalla sul ventre e, all’Atto III, con grande ragno in testa, seguita da tre bellissime ancelle da fiaba arcaica, mentre le guardie recano in petto dei granchi. Lo spodestato Timur è invece conciato come un Mosè, la schiava Liù come un’indiana d’America con una strana fila rasata nel mezzo dei capelli e i tre ministri Ping, Pang e Pong assecondano, opportunamente, una gestualità fra il popolare e il ballabile come da partitura e radici nei comici dell’Arte. Intorno, in diversa funzione, un ulteriore tocco orientale e visionario è dato dagli assoli coreutico-metaforici del giovane e talentuoso Chao Hsin, di volta in volta principe di Persia dalle nobili evoluzioni, ombra dell’antenata violentata e uccisa Lo-u-Ling, ballerina in tutù rosa che, assai sarcasticamente, vibra sulle punte nello scherzo-rondò delle lusinghe con cui i tre ministri tentano invano al terz’atto di strappare il nome al principe ignoto.

Spettacolo potente e ipnotico, si diceva, e non solo per l’operazione d’impatto politico e d’arte in scena. Ma anche, e in special modo, per la rilucenza metallica, gli spessori e il rimbalzo prospettico dei suoni uniti ai meccanismi ritmico-rituali d’Oriente garantiti dalla direttrice ucraina Oksana Lyniv, al suo esordio sul podio di Orchestra e Coro della Fondazione, in completo nero con pantaloni e giacca alla coreana su cui svetta in vita lo stacco ben stretto di una fascia in raso con i colori azzurro e giallo della sua bandiera. Tra l’altro, è lei la nuova guida musicale del Comunale di Bologna e suo è il primato di una presenza femminile stabile sul podio di una Fondazione lirica italiana, oltre che prima donna ad aver diretto al wagneriano Festival di Bayreuth. In questi giorni drammaticissimi per il suo popolo, è stata inoltre riconosciuta fra gli emblemi patriottici dell’Ucraina per quella sua coraggiosa lettera aperta al Presidente della Russia, Vladimir Putin, in cui dichiara che il loro spirito «è indistruttibile», come «la Storia» del suo Paese che, passata e attuale, «sarà studiata dagli storici e dalle vittime dei suoi crimini».
Primitivismo cinese a tinte fauve in prima linea, dunque, caricando al massimo gli effetti dell’apporto di ottoni e idiofoni fra buca e palchetti laterali, quindi lavorando con perizia sull’intera, notevolissima Orchestra così come attesta il robusto montare magmatico delle dinamiche in crescendo, la spigolosità delle dissonanze (impressionante il sostegno musicale al monologo della protagonista) e la tornitura in diversa esposizione di stile nei profili melodici di estrazione cerimoniale, nazionale o popolare, in parte autentici, in parte d’invenzione, orientali o d’Occidente. Il lavoro per netti contrasti, più che la ricerca di una gamma di colori, si rivela chiarissimo e portante dell’antinomìa violenza-amore sia nelle scene di massa, sia nella chiusa caratterizzazione dei singoli quadri e dei diversi personaggi. In virtù di un Coro di assoluta affidabilità tecnica e dalla timbrica importante (spettacolare, nell’occasione, la sezione dei tenori), curato com’è dall’ineccepibile Roberto Gabbiani, le scene di folla al primo atto acquistano suggestioni e tridimensionalità vibranti, sia nella ferocia barbarica sul tema del boia, sia nelle rarefatte ombreggiature dell’Invocazione alla luna; al secondo atto parimenti bipartita è la tornitura popolareggiante dei tre ministri che sognano una vita più rilassata nelle rispettive terre d’origine (e qui scorrono, su opposte latitudini, le immagini-cartolina da Venezia, Parigi e Roma) a fronte della tesissima circolarità meccanica alla formulazione dei tre enigmi. E così le chiuse di Oksana Lyniv a fuoco e a taglio, pulitissime, per i primi due atti mentre di rara dolcezza poetica risuona la trenodia, originalmente sottolineata da una linea di danzatori moderni in strisciata, silente moonwalk. È qui che si spengono l’opera e la vita stessa di Puccini, fra le ombre della notte e della morte. E verso la sospensione di un nulla tanto in linea con i nostri giorni e forse, per questo, trafitto dal previsto suono fisso dell’ottavino qui tenuto con una forza singolarmente lancinante.

Tante e lampanti le divergenze, invece, interne ai due cast, rispettivamente ascoltati in differita televisiva e in presenza alla recita del 27 marzo. La Turandot del soprano ucraino Oksana Dyka, incredibilmente simile nel volto al ritratto liberty in locandina originale e sul frontespizio dello spartito Ricordi, è una principessa terrificante, particolarmente aspra e altera, crudele nella fermezza del carattere scenico quanto glaciale in una voce spinta agevolmente verso dinamiche e acuti di forza impressionante. La qualità dei cromatismi, delle tensioni e dei salti micidiali ne rivelano la tempra spiccatamente espressionista, nel solco delle vocalità teatrali più scabrose, da Jago a Scarpia a Elektra. Viceversa, la principessa restituita da Ewa Vesin presenta tratti meno algidi e più umani, tinte pucciniane più consone ma maggiori difficoltà nel gestire gli sbalzi in tessitura, risolti spesso a colpi di glottide sforzando e sforando, nella scena degli enigmi, in urlo i suoni.
In entrambi i casi, la quota del miglior successo è toccata alle interpreti di Liù. Francesca Dotto al primo cast si è in verità aggiudicata il gradino più alto del podio canoro per l’emissione intensa e solida in special modo ad alta quota, brillando in entrambe le sue arie per i filati infiniti e le belle smorzature di colore; in alternanza, la Liù del soprano polacco Adriana Ferfecka dona ulteriore dolcezza lirica al ruolo, toccando nella sua romanza “Signore, ascolta!” sfumature preziose nei due la bemolle e nel radioso si bemolle all’acuto, sia pur a fronte di una minore fermezza nell’apice eroico “Tu che di gel sei cinta”.
Tra i due Calaf in gioco Michael Fabiano, al duplice debutto romano e nel ruolo, tratteggia un principe di nobile cifra poetica e musicale, piuttosto chiaro che ardente per tinta, tanto da uscire con alcune forzature nel quadro degli enigmi e relativamente a fuoco dalla sua vetta celeberrima “Nessun dorma” al principio dell’atto III; d’altro canto bella e più autentica voce pucciniana, per quanto sostenuta da minore sicurezza scenica, sfodera Angelo Villari nella timbratissima sua prima romanza (Non piangere, Liù!) e, pur perdendo qualche punta d’intonazione nelle prime battute dell’arioso “Nessun dorma”, porta a pieno trionfo l’espansione al si nel cuore del suo “vincerò”.
Altoum è in entrambi i casi Rodrigo Ortiz, interessante tenore uscito dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program, mentre verità di accenti, senili e sofferenti, portano al vecchio Timur pur con differenti tecniche di emissione sia Antonio Di Matteo che Marco Spotti. Completavano il cast senza brillare ma prestando sufficiente cura alla molteplicità di spettro degli stili canori Alessio Verna (Ping), Enrico Iviglia (Pang), Pietro Picone (Pong), Giuseppe RuggieroAndrea La Rosa hanno dato voce nelle rispettive recite al principe di Persia, efficace il Mandarino del baritono ucraino Andrii Ganchuk emerso dalla seconda edizione di “Fabbrica” e delicatissime, oltre che ottimamente intonate, le voci bianche della Scuola di Canto Corale dell’Opera di Roma.
Al termine consensi per tutti gli artisti, in buca e in scena.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2021/22
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini

Turandot Oksana Dyka / Ewa Vesin
Il principe ignoto (Calaf) Michael Fabiano / Angelo Villari
Liù Francesca Dotto / Adriana Ferfecka
Timur Antonio Di MatteoMarco Spotti
Ping Alessio Verna
Pong Pietro Picone
Pang Enrico Iviglia
L’imperatore Altoum Rodrigo Ortiz*
Un mandarino Andrii Ganchuk**
Il principe di Persia Chao Hsin
Voce del principe di Persia Giuseppe Ruggiero Andrea La Rosa

* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
** diplomato “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttrice Oksana Lyniv
Regia, scene, costumi e video Ai Weiwei
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Luci Peter van Praet
Movimenti mimici Chiang Ching
Con la partecipazione della Scuola di canto corale Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

Rai5, 24 marzo 2022
Roma, 27 marzo 2022

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