Non geniale come il premiato Barbiere di Siviglia, né posticcia come la sua Traviata da boudoir. Ma profondamente vera, dunque sul podio in posizione centrale, è La bohème di Giacomo Puccini confezionata in film-opera dal regista napoletano Mario Martone a presa diretta e in stile “Nouvelle vague” alla Truffaut quale coronamento di una Trilogia pensata per l’era Covid in tv, quindi arrivata nelle case di tutti grazie al tandem del Teatro dell’Opera di Roma con Rai Cultura.
È una doppia realtà in continua diffrazione, incrocio e osmosi, quella ritratta e tagliata a scorci per il piccolo schermo da Martone che cura regia e installazione avvalendosi dei pertinenti costumi di Anna Biagiotti, compresi fra gli ultimi anni Sessanta e i nostri giorni, quindi delle luci infallibili di Pasquale Mari, a cui nell’occasione è stata affidata anche la direzione della fotografia. Da un verso, una Bohème umanissima, quanto a luoghi e valori; dall’altro, in set metateatrale entro un gioco a carte scoperte, e dunque non meno reale, narrato dal ventre del dietro le quinte, ossia dall’ampio loft d’epoca a tre piani e a vaste campate in via dei Cerchi che diventa set operativo ideale, nonché modello d’archeologia industriale che, da pastificio Pantanella qual era, è oggi sede del Laboratorio a sua volta archivio artigianale vivente dell’Opera di Roma, con relativa raccolta di scene dipinte all’italiana, attrezzi e oltre sessantamila costumi, compresi gli abiti per la Callas in Norma, la Tebaldi in Tosca e per Del Monaco nell’Otello.
Sullo sfondo, la Roma antica del Circo Massimo, dei Palazzi Imperiali e delle cupole del Colle Palatino che infatti svettano, fra le ampie vetrate quadrettate a piombo, alle spalle del fresco nominato direttore musicale Michele Mariotti, che è lì, negli stessi luoghi dei cantanti-attori, alla guida della sua “nuova” Orchestra della Fondazione capitolina e del Coro, istruito come sempre al meglio da Roberto Gabbiani. Lì accanto, si badi, c’è anche la celeberrima Bocca della verità. Una verità che balza inequivocabilmente sincera attraverso la musica di Puccini e attraverso gli occhi dello stesso Mario Martone mostrando, in un solco cinematografico palpabile dei maestri Truffaut, Godard, Malle e Resnais unito ai suoi personali percorsi filmici per le strade e negli interni di Napoli, la realtà del tempo nel suo divenire, cogliendo l’anima delle piccole cose (la ricerca di nesso con la Kleinkunst pucciniana risulta lampante e riuscita), dei singoli gesti, delle espressioni in primo piano, svelando tecniche di ripresa, osservando e proiettando velocemente da prospettive molteplici. La più bella è, senz’altro, quella che inquadra la troupe intenta a girare e a produrre la neve artificiale al di fuori dell’edificio in una rivisitata Barrière d’Enfer. Incomprensibile invece la staticità degli astanti mentre nelle ultime sue battute Rodolfo si preoccupa per “quell’andare e venire” che, di fatto, non c’è. Parimenti poco originali i flash parigini fra la Tour Eiffel, il Café de Flore e il Moulin Rouge ma magnifici, d’altro canto, gli scorci sulla Roma antica, la trovata della quadriglia sul terrazzo di copertura panoramico del Laboratorio, il cibo vero e appetitoso sul tavolo del Momus, la sfrondatura anti-caricaturale di Benoît e di Alcindoro, i sorrisi gioiosi, i baci dati e gli amplessi accennati ma diversamente spinti (Rodolfo e Mimì seminudi l’una sull’altro nel letto, Marcello e Musetta avvinghiati mentre salgono nel montacarichi-ascensore) per la doppia coppia di giovani amanti.
Lo spettacolo, così concepito e trasmesso in prima serata su Rai3, funziona senza dubbio alcuno. Anche se l’audio, va detto, non gode di un’alta definizione dei dettagli, asciuga tutto e restituisce le prese di suono solo in parte. A ogni buon conto, gli esiti di musica più voci risultano nel complesso intelligibili nei pregi come nei difetti e, ciò che più conta, i protagonisti sono belli e credibili. Dunque si ama, si respira, si sorride e si soffre con loro. E si riflette, ancora una volta attraverso il rimbalzo di immagini e tempi, sulla fragilità dei destini.
Il tutto parte da una sintetica prolusione di Corrado Augias, ben centrata sulla “storia di giovani, di amori e di attese con pochi soldi in tasca. Si crede, si spera – ci dice – e tutto bello appare. Una giovinezza – insomma – che prova a cambiare il mondo”. Ma il canto discendente in esordio della protagonista, subito di lì a breve ci dirà che nella vita quel provare non è sufficiente, rabbuiando le vite spensierate anche dei più goliardici bohémiens. Del pittore Marcello e soprattutto del poeta Rodolfo, che arrivano in via dei Cerchi in una serata d’inverno, aprono il pesante portone di legno del Laboratorio, accartocciano probabilmente un avviso di pagamento lasciato per loro e salgono su, a grandi passi per le rampe di scale, fino a raggiungere fra le risa la loro soffitta.
Di Bohème c’è già tutto: la giovinezza e la disinvoltura vivace, la semplicità degli abiti in lana e l’usura degli arredi; la polvere, le candele, i gesti e gli atteggiamenti prescritti dal libretto, la grande tela dipinta sul pavimento. E ancora, a seguire, la cucina – diciamo pure alla napoletana – con la pentola di alluminio sul fuoco, il letto in ferro battuto, il timido arrivo di Mimì che soffia per spegnere il lume in cera. E, soprattutto, la mano di Rodolfo, lentamente poggiata in approccio sulla gelida manina di una soave fanciulla che veste come ai nostri giorni, in jeans, golfino più maxi pull aperto, scarpe da ginnastica Converse.
E c’è innanzitutto la musica, quella che Michele Mariotti governa con padronanza e freschezza assoluta. Veloce e fluida, guizzante nel riprodurre le fiamme saltellanti che divorano il manoscritto di Rodolfo in un pianissimo e “staccatissimo”, precisa nella caratterizzazione tematica dei personaggi come degli ambienti. Attraverso la sua direzione leggera e suadente volteggia la canzone della vigilia di Natale al pari dell’olezzo di frittelle nell’aria, ripresa poi in posizione stretta in apertura del quadro secondo. Attacchi e chiuse risultano sempre puliti così come i colpi di forza, pochi e calibrati a dovere, sempre puntati in funzione teatrale e mai deflagrati per il mero effetto. Analogamente sottile è il lavoro su metri e dinamiche ad alto e continuo tasso variabile, fra crescendo e stringendo, sostenuti, forte e incalzando, fra tempi a contrasto con ogni gamma di piano quasi sempre in leggerissimo, andantini affettuosi per Mimì e un’infinità di forchette, come quelle che Mariotti rende folgoranti nella dinamica serrata fra le tre battute finali. In sintesi, una tavolozza dai pigmenti dinamico-timbrici molteplici che, nell’agogica mutevole ma a redini ferme del direttore, trova scansione puntuale e forza coesa grazie alla risposta sempre sagace di un’Orchestra cresciuta in maniera sorprendente negli ultimi vent’anni.
In vetta alla classifica delle voci, il tenore di origini cilene Jonathan Tetelman, classe 1988 e cresciuto in una famiglia di Princeton nel New Jersey, mette a segno con dizione, tecnica, prestanza scenica e stile di canto assolutamente ragguardevoli un Rodolfo, qui in lupetto e cardigan, finalmente a fuoco, scontornato a tratti vivi, come è giusto che sia per la sua età e i suoi giovanili ardori. Non il solito, pallido poeta, in sostanza, che finisce quasi sempre sotto l’ombra dei puntualmente più dotati Marcello per quota di voce, armonici e temperamento. Qui invece è l’esatto contrario: bellezza fisica e disinvoltura scenica straordinari a parte, è la forza e il governo della linea del suo canto, aperto e sincero, a colpire. Non a caso già vanta un prestigioso contratto in esclusiva con la Deutsche Grammophon. A distinguerlo dal gruppo, sono il melos e la differente esposizione di colore che assicura a ogni articolazione e accento, i fiati potenti che sorreggono pienamente le note. Ed ecco che il suo arioso “Chi son? Sono un poeta” si carica di pause e sfaccettature, i crescendo e gli acuti sono costruiti pensando, rinforzando persino, ma immensi e sempre proiettati a fini espressivi. Se qualche appunto va fatto, è sui pianissimi, dove per stemperare gli spessori finisce con l’introiettare l’emissione e quindi vagamente per stimbrarla. Il colore pucciniano doc, la morbidezza dei suoni e la capacità di un legato a lunga gittata e d’ampio respiro atto a tenere in sé tutti gli altri parametri in gioco, con vocali ben poggiate e potenziate, alla Pavarotti, garantiscono comunque il resto. Di qui l’intensa plasticità delle sue arie, la forza di un ruolo che carica dall’inizio alla fine di gran sentimento caratterizzando, tra l’altro, con magnetismo non comune i suoi duetti.
Interessante pasta timbrica e belle sfumature di colore soprattutto all’acuto presenta anche la Mimì del soprano Francesca Lombardi che, tuttavia, ha ancora un po’ di strada da fare per smussare qualche durezza nell’intonazione e angolosità di fraseggio alla luce di una predisposizione forse più drammatica che da lirico puro, nonostante la bella luminosità delle puntature. Il suo momento migliore lo ascoltiamo al terzo quadro, negli affondi dolenti, nella delicatezza delle emissioni in pianissimo (esemplare il suo quadruplo piano nel “Bada sotto il guanciale”) e nel prezioso arabesco all’acuto in chiusa al duetto. Meno convincente e un po’ troppo da lezione d’arte scenica il suo contributo gestuale, in generale e nello specifico al suo “Sono andati fingevo di dormire” al quarto quadro.
Altro discorso per la seconda figura femminile. Assai graziosa fisicamente, al Café Momus si presenta in corto abito da cerimonia primi anni Settanta e stivaletti argento, quindi in minigonna e giubbino in pelle alla Barrière d’Enfer, è la Musetta di Valentina Naforniţă, soprano moldavo di estrazione belcantista ma disomogenea alquanto nel divario fra i suoni oltre il pentagramma piuttosto aspri (l’urlo per attirare Marcello è vistoso e infatti le riesce benissimo), spesso eccessivi, e la poca duttilità in zona centrale, dove tende a ricavare voce spingendo i suoni in gola. Nel suo Valzer sfodera a ogni modo armi di compiaciuta seduzione, qualche interiezione sfumata ad arte e un bel picchettato all’acuto.
A corto di armonici e di particolare potenza, anche se di ottima intonazione e intenzione espressiva, si rivela il Marcello del baritono Davide Luciano, viceversa ampia è la presenza canora di Roberto Lorenzi per Schaunard, mentre il Colline del basso georgiano Giorgi Manoshvili garantisce solidità e tinta scura al gruppo con un’omogeneità di emissione tale che al termine, nella sua miliare “Vecchia zimarra”, finisce col diventare monolitico in una trenodia senza peculiari screziature.
Singolari, si diceva, sia il Benoît di Armando Ariostini, di portamento alto e signorile, dunque al netto delle forzature comiche impresse solitamente alla parte sia nelle corde che nella curvatura fisica, così come l’Alcindoro di Bruno Lazzaretti, che assume personalità e foggia più distinte.
Bene le altre presenze nel cast con lo squillante Parpignol di Vinicio Cecere, con il venditore ambulante di Giorgio Massaro, con il sergente dei doganieri di Alessandro Fabbri e il doganiere Daniele Massimi. Al solito una nota di merito per le voci bianche messe a giocare negli ampi spazi e fra le sedie dell’orchestra con trampoli, strumenti finti, carretti. Vale a dire, con ogni sorta di “giocattolo” di scena e d’archivio del magico Laboratorio teatrale di via dei Cerchi.
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2021/22
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,
ispirato al romanzo di Henri Murger Scènes de la vie de bohème
Musica di Giacomo Puccini
Mimì Federica Lombardi
Musetta Valentina Naforniţă
Rodolfo Jonathan Tetelman
Marcello Davide Luciano
Schaunard Roberto Lorenzi
Colline Giorgi Manoshvili
Benoît Armando Ariostini
Alcindoro Bruno Lazzaretti
Parpignol Vinicio Cecere
Venditore ambulante Giordano Massaro
Sergente dei doganieri Alessandro Fabbri
Doganiere Daniele Massimi
Attori Samuel Salamone, Yannick Lomboto, Davide Celona,
Daniele Savarino, Roberto Galbo, Angelica Dipace
Orchestra, Coro Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Direttore del coro Roberto Gabbiani
Istallazione e regia Mario Martone
Costumi Anna Biagiotti
Luci e direzione della fotografia Pasquale Mari
Nuovo allestimento del Teatro all’Opera di Roma – Rai Cultura
Trasmesso su Rai3 l’8 aprile 2022
Qui il link per vedere l’opera su RaiPlay