Spettacolo dalla genialità essenziale, raffinata e potente. Di esatta fibra europea quanto di sintesi superba fra i linguaggi di un’arte scenico-registica che ridisegna e restituisce, in moderna modalità globale, uno dei più alti titoli del teatro musicale del Novecento. E lo fa agganciando, nel fuoco esatto dei segni gestuali e visivi, opera lirica e dramma borghese di parola, Tanz Theater e Realismo russo, cinema e musical americano.
È la Káťa Kabanová su libretto e musica di Leoš Janáček, dal dramma Grozá (L’uragano) di Aleksandr Ostrovskij nella traduzione in cèco di Vincenc Červinka, meritatamente applaudita al Teatro Costanzi di Roma e per la prima volta a un secolo dal suo debutto assoluto a Brno nell’allestimento inedito a firma di Richard Jones. Allestimento con scene e costumi a noi più vicini – fra gli anni ’50 e ’70 – di Antony McDonald, luci superlative di Lucy Carter e movimenti coreografici puliti oltre che velocissimi di Sarah Fahie, nato entro la blasonata coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, già nel 2019 vincitore dell’Olivier Award come migliore nuova produzione d’opera ma qui arrivato con un anno di ritardo saltando, causa Covid, l’appuntamento con la scorsa stagione. Il tutto, in coincidenza con il primo impegno del neo-sovrintendente Francesco Giambrone e l’ottima idea di una mostra allestita nel Foyer al primo piano del Costanzi, a cura del Moravian Museum in collaborazione con il TIC Brno, articolata nell’esposizione dei ritratti fotografici del compositore Janáček e, in tavolini-bacheca, della locandina della première datata 1° novembre 1921, di una pagina in fac-simile della partitura autografa, del primo spartito per pianoforte e del primo libretto a stampa, entrambi del 1922, più foto d’epoca.
Da segnalare ed esaltare innanzitutto, al di là dell’ottima resa delle diverse componenti musicali in campo, è infatti la forza d’impatto della produzione in sé, per taglio cronologico spinta in avanti di circa cent’anni rispetto a quel 1860, indicato in didascalia ad apertura di libretto, stretto fra le ancora feudali maglie della gretta classe mercantile nel borgo di Kalinov sul Volga. In prolettica apertura sul primo quadro e a specchio di un conflitto drammatico che strappa l’ipersensibile psiche della giovane sposa Káterina Kabanová, decisa a tentare un impossibile volo verso un migliore sogno di libertà e amore contro l’insopportabile oppressione di uno squallido quadro familiare e sociale, si assiste subito e in rapida sequenza a un folgorante, doppio ciak teatrale che è sintesi del gioco esterno/interno bipartito fra gli atti, scolpito com’è entro la tagliente intesa di regia, scena, costumi, movimenti coreici e luci: nel primo, Káťa è sola, persa nella mente e nel destino ma forte, scalza e libera nella sua veste intima e leggera, neutra come il soprabito da pioggia che poco potrà contro la tempesta psico-meteorologica destinata a travolgerle la vita. Alle spalle, in fila rigida e distante, c’è la gente. Quella di tutti i giorni, che guarda, giudica, sparla e non perdona. Nel secondo, con stacco e moto velocissimi, scende invece un fondale scenico a metà strada fra una casa di bambola e la parete di un ordinato interno americano anni Cinquanta, alla Truman Show: una grande finestra all’inglese con tendine arricciate, parato a disegni geometrici color senape, una vetrinetta con gli oggetti di una vita, canarino finto compreso, un mobile e una porta: quella per scappare via, verso un’altra storia. Lì dentro, passiva, Káťa si lascia infilare uno stretto abito di grisaglia grigio, e scarpe da signora. A saldare i due ciak di immagini, alte pareti laterali a blocchi che opprimono la scena, e tre grandi fanali inquisitori che pendono dall’alto. Ma niente Volga, pur tanto immaginato ed evocato, dai canti e dalle note, dalle parole e da quelle canne da pesca lanciate più volte da due, uno o tre pescatori verso la platea perché quel fiume, testimone ed emblema di natura, forse unica via fuga, siamo noi.
Ed è così che il Parco sulla riva alta del Volga al primo quadro dell’atto I altro non è che una semplice camera a scatola di nudo legno mentre, al secondo quadro, scende di nuovo la fintissima casa-pannello con quella sua ampia finestra al cui vetro esterno si appiccica la folla guardona. All’analogo interno di casa Kabanov nel primo quadro dell’Atto II segue invece un esterno realizzato con mezzi minimi ma massimi effetti: la parete si gira a vista e si passa alla calda notte d’estate in giardino, laddove intorno alla panchina e al lampione si consumeranno i due diversissimi amori, ideale ma intenso quello fra Káťa e Boris, frivolo e carnale quello fra la cognata adottiva Varvara e il maestro-chimico-meccanico Kudrjáš. A questi andrebbe aggiunto anche il terzo, ben più torbido, consumato presumibilmente dietro le quinte nella stessa notte, fra la dominatrice Kabanicha e l’irascibile Dikoj, ben tratteggiato nell’allusione sadomaso con l’autoschiaffeggiamento dell’uomo guidato dall’anziana donna prima di imbucarsi entrambi oltre la porta della parete laterale sinistra.
Ovviamente, per l’atto III, niente galleria a volte di un vecchio palazzo semidistrutto sotto cui ripararsi all’arrivo della tempesta e arbusti oltre i quali si scorgono le acque del Volga. Bensì, una pensilina girevole dove tutti corrono a ripararsi proteggendosi dalla pioggia con dei fogli di giornale o di carta sulla testa, fra i lampi stroboscopici che abbagliano il pubblico dagli angoli più alti del sottarco scenico. In assoluto, efficacissima la ribellione della giovane moglie che si infila nella berlina scura del marito in partenza per la fiera di Kazan, lì spedito ovviamente secondo decisione della madre Kabanicha, e tre le magistrali invenzioni di scena: il fermo immagine degli astanti al colpo di fulmine fra i due “vinti” Káťa e Boris (nipote vessato dal vecchio e irascibile mercante Dikoj) all’uscita dalla chiesa al I quadro; l’indugio e la fuga oltre la porta risolta facendo scorrere velocemente verso il fondo l’intera casa-pannello con lei di spalle sulla soglia, nel punto di volta fra i due quadri dell’atto II; infine il suicidio di Káťa nel Volga, che la vede improvvisamente scomparire nel flutto a spirale coreograficamente affidato ai corpi in corsa di quella folla sociale sotto i cui sguardi e il cui peso questa fragile ma determinata creatura, sorta di Bovary russa, eroina pucciniana o di Anna Karenina che sia, cerca la morte.
Si dipana così la fitta trama di simboli e relazioni complesse che attraversa la storia di Káťa Kabanová, pur amata dal debole ma anaffettivo marito Tichon, succube di una madre incattivita e quasi sempre attaccato alla bottiglia, continuamente osteggiata dalla tirannica suocera Marfa Kabanová (Kabanicha), aiutata a tradire e ad amare Boris con l’affettuosa complicità della figlia e cognata adottiva Varvara. E fino a esplodere e fuggire, usando la chiave del libero arbitrio per aprire quel dannato cancello della sua casa-gabbia per sentirsi viva, almeno in quelle dieci notti di passione adulterina, correndo poi fra la colpa incontenibile, la verità confessata e un ultimo addio al suo Boris, dritta nell’occhio fatale dell’uragano, trovando libertà e morte nelle acque gelide del grande Volga. E ancora, secondo il rito delle bieche apparenze, spetta alla spietata Kabanicha l’ultima, aspra parola, scandendo in chiusa i disumani ringraziamenti verso quella “brava” gente che le ripesca il corpo bagnato d’acqua vera della povera donna infelice. Infelice ma amata come non mai in tarda età dal creatore Janáček ispirata, com’è, alla sua reale fiamma Kamila Stösslová.
Tanta sensibilità e perizia emergono al pari dal podio dove, a tenere ben vive le fila sonore di un tale, articolatissimo spaccato drammaturgico c’è David Robertson alla testa di Orchestra e Coro dell’Opera di Roma, quest’ultimo ottimamente preparato dal maestro Roberto Gabbiani. Più che ridondanze e spinte di forza, pur tenendo alta la temperatura ritmico-dinamica della narrazione in pentagramma, la direzione musicale ha inteso privilegiare la sostanza più delicata, intima e poetica, persino sfumata e non di rado pucciniana, interna a una scrittura dalla peculiare modernità armonica e di non facile lettura, articolata per incisi, schegge e tasselli, curvature melodiche estratte dal parlato, picchi lirici e prosastici, affreschi e trasfigurazioni, saltando dagli incanti di natura agli affondi tra le lacerazioni dell’anima. Fra la cupa enunciazione in note del nome della protagonista – otto colpi di timpani sul fondo degli ottoni gravi per scolpirne la centralità e il destino (Ka-te-ri-na Ka-ba-no-vá) – a sigillo nell’Ouverture e nell’epilogo oltre ai momenti apicali della vicenda, già solo in buca è racchiuso un intero mondo di solitudine e passione, di colori e immagini, di ubbidienza e trasgressione, fra ombre e sussulti, rilievi onomatopeici, richiami popolari, silenzi e aperture sinfoniche. È il mondo di Kát’a e di quanto la circonda, sempre ben vivido grazie anche a una compagine orchestrale coesa e sollecita – si premiano innanzitutto legni, ottoni, con i bravi corni raccolti nel palco di prima fila sulla destra, e percussioni – nel tradurre in forma esatta gesti e intenzioni del direttore.
Naturalmente oltre all’impegno linguistico e canoro, tutti gli interpreti sul palco erano chiamati ad eccellere in doti attoriali di prima qualità, specialmente per una produzione ad altissima definizione visiva e gestuale quale appunto lo spettacolo di Richard Jones. Premessa la bravura estrema di ogni artista in campo nella propria specificità sia scenica che tecnico-espressiva, si segnala in prima linea la vincente terna dei tenori, capitanata da un notevolissimo Charles Workman, apprezzato Idomeneo sempre al Costanzi e ora Boris Grigorijevič dalle sonorità ampie e ben sfumate, dai curati, sfaccettati accenti nel racconto al primo atto quanto di slancio sincero nei momenti d’amore per Kát’a. Analogamente a fuoco è il Váňa Kudrjáš di Sam Furness, aspetto e atteggiamento alla Fru dei Jackal, abiti anni Settanta e piglio scenico-canoro duttilmente vivace, tornito ad arte nella canzone d’attesa nel cuore dell’atto II intonata saltando sulla panchina con un piccolo e fintissimo ukulele giocattolo. E in ottima sintonia anche Julian Hubbard (il bravo Cassius del recente Julius Caesar di Battistelli inaugurale) per il ruolo del succube Tichon Kabanov, definito con tinta di voce e proiezione sapientemente più velata rispetto ai due tenori amanti. Degna di nota la connotazione chiara e tagliente della suocera Kabanicha, non affidata a un contralto ma al mezzosoprano britannico assai versatile Susan Bickley, forte di un repertorio che spazia dal Barocco ai nostri giorni e qui suocera fisicamente e vocalmente odiosa come si conviene. Ottima inoltre la coraggiosa Varvara del mezzosoprano Carolyn Sproule così come centrato, per quota di voce e di arroganza, il basso Stephen Richardson per il mercante Dikoj.
Una valutazione a sé spetta al soprano statunitense Corinne Winters che, dopo il debutto estivo con l’Opera di Roma nella Madama Butterfly al Circo Massimo, qui dava forma e canto a una spettacolare Kát’a innanzitutto sul fronte dell’interpretazione attoriale: costante ed evidentissimo, in lei, l’oscillare fra l’ubbidienza e la forza, plasticamente rendendo palpabili i sussulti del suo animo al passaggio da moglie infelice a dolce amante e a donna adultera in preda al delirio di colpa, rivelandosi esatta a ogni postura e sguardo, nella tensione dei gesti, in una fisicità cesellata con bellezza quasi coreutica. Pari forza e verità drammatica si ritrovavano nei suoi declamati e nelle sortite di ogni genere, ben gestendo i salti di registro, gli affondi e i visionari soliloqui ma, talvolta, poco curando il fuoco dell’intonazione e, con essa, gli stessi smalti di una pur dotatissima voce.
Lodevoli anche il Kuligin in bicicletta di Lukáš Zeman e le talentuose interpreti uscite dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, Angela Schisano per Fekluša e Sara Rocchi per Glaša.
Teatro dell’Opera – Stagione 2021/22
KÁT’A KABANOVÁ
Opera in 3 atti
Musica e libretto di Leoš Janáček
dal dramma Grozá (L’uragano) di Aleksandr Ostrovskij
Savël Prokofjevič Dikoj Stephen Richardson
Boris Grigorijevič Charles Workman
Marfa Ignatěvna Kabanová (Kabanicha) Susan Bickley
Tichon Ivanyč Kabanov Julian Hubbard
Katěrina (Kat’a) Corinne Winters
Váňa Kudrjáš Sam Furness
Varvara Carolyn Sproule
Kuligin Lukas Zeman
Fekluša Angela Schisano
Glaša Sara Rocchi
Un passante Giordano Massaro
Una donna del popolo Michela Nardella
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore David Robertson
Regia Richard Jones
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Scene e costumi Antony McDonald
Luci Lucy Carter
Movimenti coreografici Sarah Fahie
Nuovo allestimento dell’Opera di Roma
in coproduzione con il Royal Opera House Covent Garden
Roma, 23 gennaio 2022