Patria e amore “onnipossenti nomi” regolarmente all’appello nei gesti come nelle parole mentre, in primo piano, si staglia il grande velo bianco donato dall’amato, giocato a valenza ternaria fra gioia nuziale, copertura per altra donna in fuga con presunto tradimento e bozzolo mummificante allo scattare della follia nella mente della giovanissima Elvira per l’abbandono, immotivato e improvviso, del suo promesso sposo. Una follia, oltre la partitura, effettivamente qui centrale e addirittura spinta alla Dario Argento (Opera) in autolesione al sangue, fino a provocare una cecità che rinvia tanto all’antichissima matrice sofoclea, quanto a una più attuale nevrosi adolescenziale, tra l’altro in drammatico aggancio con l’ossessione uditiva per i rumori della guerra.
Insoliti, essenziali e moderni sono dunque i meccanismi su cui ricerca una sua novità l’allestimento creato dal regista Andrea De Rosa per il ritorno dopo trentadue anni dei Puritani di Vincenzo Bellini al Teatro dell’Opera di Roma, avvalendosi delle scene funzionali di Nicolas Bovey, dei costumi non belli di Mariano Tufano e delle luci importanti di Pasquale Mari. Nel complesso, diverse sono le buone intuizioni d’impatto: su tutte, si apprezza il sublime, triplice rimbalzo dei petali bianchi sul velo nella scena della festa, o gli accecanti flash stroboscopici della griglia con Arturo in balìa del temporale. Ma, anche, l’idea della sottile benda ispirata, stando alle parole dello stesso regista romano, al dipinto a olio e cera dell’artista americano Julian Schnabel Large Girl with No Eyes, del 2001. A fronte, d’altro lato, di meno felici invenzioni, come l’eccessivo infagottamento tra velo e abito della protagonista, il truculento ferimento del volto (il sangue agli occhi non si può proprio vedere), il brancolare nel buio scambiando Riccardo per l’amato, le mantelline alla Batman dei coristi puritani, l’enorme cappio che pende in extremis a un passo dall’atipico lieto finale sulla vita di Arturo, con inevitabile rinvio nel nostro immaginario all’impiccagione di Giocasta che farebbe il paio con l’auto-accecamento dell’Edipo investigatore scopertosi assassino.
Intorno, c’è il plumbeo e austero spazio senza tempo, al vago scontro fra “têtes rondes” e cavalieri, più una pedana – poi doppia piastra – che come una griglia al neon di volta in volta con angolazione variabile serra o circoscrive in uno spazio a sé solitudine e oppressione, tempesta e patibolo, incontro e lieta intesa. Poi, oltre alle singolari trovate dei gesti psicotici della protagonista, del terrore per gli squilli militari, delle macchie rosse che imbrattano mani e occhi (sarebbe stata preferibile una semplice ombra di trucco scuro su fronte e palpebre) con relativa benda strappata al termine da Arturo, c’è un assetto scenico più generico condiviso fra l’ampia gradinata con colonne in pietra per la fortezza nei pressi di Plymouth, un manichino per l’abito da sposa, una toilette in cui si specchia Elvira non vedente, il letto in ferro battuto color panna e a tre sbarre uguale a quello della recente Bohème di Martone, i costumi moderni e spesso strani. Inoltre, in apertura per i primi due atti, eccessivo appare l’uso della quarta parete opaca a velo, comprensibile nel suo scopo ipovisivo ed estraniante ma, per lo spettatore, alla lunga faticoso.
Tutto ciò fermo restando, in premessa, la doppia sfida della confezione musicale – difficile fra buca e palcoscenico, difficilissima per le voci – in realtà già maturata e vinta. E ciò perché la squadra presentata in campo era in gran parte identica a quella rodata con successo per la versione da concerto in streaming ascoltata e recensita in regime Covid nel gennaio 2021 (qui il link), con partitura integrale (ad eccezione dei tre canonici tagli di due cantabili e una stretta effettuati dallo stesso compositore sin dalla prima dell’opera, più qualche lieve sfrondatura agli attacchi di scena), scelta del direttore sul podio, compagini corale e orchestrale ovviamente di casa e stesso cast di interpreti, con la sola eccezione del ruolo tenorile di Lord Arturo Talbo, partigiano della casa reale degli Stuart. In quell’occasione, a darvi facile forma, era stata la voce brillante e fluente di Lawrence Brownlee; a portare stavolta il personaggio in soluzione compiuta in palcoscenico c’era John Osborn, bel tenore rossiniano e di belcanto ampiamente lodato per stile e calibro ma che qui, alla sua sortita in apertura di quartetto al primo atto, è apparso insolitamente affaticato nel dominare fiati e suoni lungo le ampie campiture di frase. In compenso già dal duetto con la misteriosa dama, poi rivelatasi la regina vedova da salvare, il suo canto notoriamente raffinatissimo per dizione, colore e periodare, ha ripreso quota portando a buon fine tutti i suoi acuti di rito, compreso quell’attesissimo fa naturale oltre tessitura nel concertato al terz’atto mancato alla prima recita, qui invece prodotto fra gli entusiasmi del pubblico della pomeridiana con vivo slancio spingendosi in falsetto.
Se è pur vero che non è troppo semplice cavare immagini dall’azione più mentale che reale dell’ultimo capolavoro belliniano, scritto su libretto del conte Carlo Pepoli dal dramma storico di Ancelot e Boniface Têtes rondes et Cavaliers (ossia le teste rotonde senza parrucche né altri fronzoli degli austeri puritani avversi ai partigiani di fede anglicana e ai difensori degli Stuart) sotto la protezione di Rossini e in scena con esito trionfale il 24 gennaio 1835 al parigino Théâtre des Italien, l’allestimento di De Rosa ha comunque avuto la fortuna di trovare nella magnifica direzione di Roberto Abbado una potente, articolatissima sponda drammaturgico-musicale. Vale a dire, non un semplice sostegno a commento o risonanza. Quanto, piuttosto, una dimensione teatrale “altra” che ha già in sé, dell’intero dramma, “la luna, il sol, le stelle, le tenebre e il fulgor”, attenta com’è alla scrittura quanto alle mille sfumature atmosferiche e psicologiche intuibili in termini di piglio ritmico, intensità dei colori, di pregnanza delle dinamiche, di piena valorizzazione per posizione e funzione delle fonti sonore sia in buca che, in stereofonia, dietro le quinte. Un lavoro di scavo e rimbalzo, dunque, che fa leva innanzitutto sulla scelta e sulla tenuta serrata dei tempi, garantendo al pari lo smalto e le acrobatiche prodezze richieste a vari stadi di un belcanto nato per nomi all’epoca fra i più altisonanti quali il soprano Giulia Grisi per Elvira e il tenore dalla tecnica inarrivabile Rubini per Arturo, il basso Lablache per l’amorevole zio paterno Giorgio e il non meno mitico basso cantante Tamburini per il ruolo dell’antagonista Riccardo, a seguire consegnato alla corda baritonale.
L’alba in apertura, solcata dal morbido tema dei corni, si spinge attraverso il gesto puntuale ed elegante di Roberto Abbado fino a toccare le suggestioni impalpabili di un affresco sinfonico a metà strada tra i futuri pentagrammi dei Preludi wagneriani o dei poemi di Smetana e di Strauss. Viceversa, i richiami marziali sono italianissimi, concreti e pregnanti, al pari della vivacità genuina e travolgente dei diversi metri di danza, canzone a ballo, tarantella o polacca che sia. E non meno mirabile risulta la cura delle riprese daccapo, la costruzione meticolosa dei concertati, l’equilibrio raro fra il dato tecnico-strumentale e un caleidoscopio espressivo denso di sfumature e accenti, di vertigini incalzanti, di preziosi rubati. Tutto si avverte, naturalmente, in virtù della stretta intesa con l’Orchestra lirica capitolina, ben salda nel Tutti quanto nel dettaglio di sezione, con violini primi e secondi che corrono veloci, archi scuri vibranti, legni svettanti, ottoni intonati e sonori, percussioni folgoranti, arpa e organo di sollecita suggestione. Ne salta fuori un Bellini notevolissimo, di fibra sincera e avvolgente, che si continua a pensare e a canticchiare finché non si rientra a casa. E anche oltre. Qualche lieve asimmetria pur affiora e si nota anche nel Coro, ma solo nelle due scene iniziali, e in pochi altri momenti. La tenuta a seguire, unitamente al colore, è al solito garantita dalla solidità delle compagini e dal buon lavoro dell’ottimo Roberto Gabbiani.
Il primo a ricevere ampi consensi a scena aperta è il baritono Franco Vassallo, interprete con intelligenza attento ad ancorare il suo registro a quell’ideale di basso cantante per cui fu concepito il particolarissimo ruolo del colonnello puritano sir Riccardo Forth, antagonista vagamente lirico perché un tempo promesso sposo di Elvira Valton e dunque nemico ma, nei fatti, complice del rivale Arturo agevolandone la fuga con la regina e infine contento persino della riappacificazione fra i due promessi sposi. Dunque emissione grave, compatta e ferma ma duttilmente ridisegnata nell’Andante affettuoso “Ah, per sempre io ti perdei” sciogliendo i suoi teneri affanni fra biscrome e volatine fino al poderoso Fa, quindi caricando affetti e vocalizzi nella Cabaletta “Bel sogno beato” con nobiltà di legature e accenti, proiettandone all’ottava superiore il sol sulla parola chiave “amor”. In quel che sarebbe poi divenuto l’inno della Sicilia indipendente (Suoni la tromba) concepito appunto per due voci di basso nel Finale II, con il suo canto concorre al fiero piglio della fiamma guerriera, anche in tal caso raggiungendo la vetta del Fa. Ma non prima di aver tornito splendidamente in coppia con Sir Giorgio Valton, fratello del padre di Elvira, l’Andante con inflessioni assai suadenti.
Alla quarta scena in unione alla sortita non proprio pulitissima di Elvira e nel citato Duetto patriottico svetta per omogeneità di tecnica e densità di tinta bronzea il basso Nicola Ulivieri, Giorgio ben saldo e accattivante per una cifra emotiva a metà strada tra il fascinoso Guido nell’Elena del Mercadante e il diversamente protettivo Germont padre verdiano. Bellissimo pertanto il suo “Piangi, o figlia sul mio seno” e, in ulteriore esposizione dolente, la sua cronaca in diretta sulla follia della fanciulla narrata nella romanza con Coro “Cinta di fiori e col bel crin disciolto”, alla seconda scena dell’atto II.
Come prevedibile tutta in ascesa la prova pirotecnica dell’Elvira di Jessica Pratt in verità, come si accennava, al primo impatto un po’ abbozzata nel duetto con il Giorgio di Ulivieri mentre, per l’apice delle sue risorse, era necessario attendere la luminosa potenza del Re proiettato al sovracuto a sigillo di quel numero. Quindi, premessa la congenialità per il ruolo e rilevata una sensibile maturazione in direzione espressiva dello stesso arsenale tecnico da sempre riconosciutole, la sua Elvira getta luce con piglio brillante sulla vivace Polacca (Son vergin vezzosa) interna al Finale I mentre, a fronte di un tracciato costantemente in posizione alta e in tensione drammatica tra sfumati filati e acuti funambolici, strappa i consueti entusiasmi con la sua scena e aria della pazzia (Qui la voce sua soave) lanciandosi senza rete nel fuoco di trilli, scalette, ribattuti e batterie di puntature, non sempre limpidissime ma spettacolari e assai vertiginose.
Da belcantista romantico e lirico di grazia pura, John Osborn cesella un Arturo dai tratti lievi, anch’egli aggiustando man mano il ruolo nel corso di un’esibizione canora progressivamente a salire fino a valorizzare, con cura esemplare, articolazioni, dinamiche e acuti. Nella Cavatina “A te, o cara”, che in realtà è l’attacco del Quartetto, mostra qualche incertezza presto lasciata indietro per forgiare, piuttosto, frasi di smalto quanto a colore e affetti. Salendo poi su altre vette all’Atto III, va a inanellare al richiamo della sua canzon d’amore un poeticissimo Andante (A una fonte afflitto e solo) scandito negli appoggi e mirabilmente sfumato in coda; quindi, con classe rara, indugia a mezzavoce “quasi spenta” e, con portamento dolcissimo sulle sorti infelici dell’esiliato pellegrin (Corre a valle, corre a morte), scontorna in crescendo e sforza un accorato, toccante si bemolle. Attraversa infine in duetto l’Allegro col si naturale (Nel mirarti un solo istante), vira ai due re naturali all’acuto più do di petto in chiusa nel Più moderato, centra – fra gli applausi dell’incontinente pubblico – sia il Re bemolle di petto che il Fa naturale in falsetto nel “Più sostenuto” del bellissimo Largo concertato finale.
Assolutamente meritevoli, al termine, anche il Gualtiero Valton del basso Roberto Lorenzi, il sir Bruno Roberton del tenore Rodrigo Ortiz e l’Enrichetta di Francia del mezzosoprano ad ampia estensione Irene Savignano, entrambi talenti, questi ultimi, scelti dal sempre lodato progetto “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma.
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2021/22
I PURITANI
Opera seria in tre atti
Libretto di Carlo Pepoli
Dal dramma storico Têtes rondes et Cavaliers
di Jacques-François Ancelot e Joseph Xavier Boniface
Musica di Vincenzo Bellini
Elvira Valton Jessica Pratt
Lord Arturo Talbo John Osborn
Sir Riccardo Forth Franco Vassallo
Sir Giorgio Valton Nicola Ulivieri
Lord Gualtiero Valton Roberto Lorenzi
Sir Bruno Roberton Rodrigo Ortiz*
Enrichetta di Francia Irene Savignano*
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Andrea De Rosa
Scene Nicolas Bovey
Costumi Mariano Tufano
Luci Pasquale Mari
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 24 aprile 2022