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Roma, Teatro dell’Opera – Ernani

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Ben tre uomini per una sola donna, l’onore più che l’amore fra giuramento fatale, devozione, congiura, incoronazione, vendetta e morte ma, soprattutto, un poker di voci di prima sfera e fibra.
È qui il singolare nocciolo dell’Ernani, opera quinta di un giovane Giuseppe Verdi che nell’anno 1844 si presenta, dopo il quadruplice lancio alla Scala, all’esordio veneziano tenendo al contempo a battesimo il premiato tandem con il librettista Francesco Maria Piave, trattando per la prima volta una fonte letteraria alta (l’Hernani di Victor Hugo) e testando spinte sperimentali che svoltano in definitiva direzione romantica. Di qui la scoperta dell’archetipo baritonale e il confronto paradigmatico dei ruoli nei rispettivi registri, il respiro dialettico dei protagonisti in unione al coro e all’orchestra, il peso drammatico assegnato al ritmo puntato o alla sesta ascendente. E ancora, il sorprendente innesto delle articolazioni formali e delle funzioni canore associando, ad esempio, il duetto o un breve cantabile al tempo di mezzo, usando il terzetto a mo’ di stretta, concentrando la forza del fuoco drammatico nella sintesi di scavo degli incisi melodici.

Una premessa sulla portata del carico analitico e interpretativo da tener presente, necessariamente, per comprendere la solidità d’assetto e la valenza degli esiti riscontrati nell’Ernani di Verdi proposto dopo nove anni al Teatro Costanzi per la stagione lirica dell’Opera di Roma, in chiusa invernale e a un passo dal ritorno dell’estate a Caracalla, riprendendo con altri interpreti – a eccezione del tenore per il ruolo del titolo – lo stesso allestimento di pregevolissimo taglio storico e pittorico coprodotto dalla Fondazione capitolina con la Sydney Opera House. Spettacolo a firma dell’argentino Hugo de Ana per l’intero pacchetto di regia, scene e costumi, con le luci di Vinicio Cheli (qui riprese da Valerio Alfieri) e la direzione musicale (all’epoca affidata a Riccardo Muti, oggi direttore onorario a vita) dell’ottimo Marco Armiliato, nell’occasione e dopo anni sul podio di Orchestra e Coro del Lirico romano, quest’ultimo preparato da Roberto Gabbiani. Sullo sfondo rinascimentale fedele alla Spagna del 1519, come da libretto ma spostando la scena nell’unica, emblematica altura dell’Alhambra l’intero spettro dei luoghi d’Aragona, Saragozza e Aquisgrana, l’azione prende forma fra l’opulenza architettonica – modernamente e significativamente destrutturata – del grande Palazzo di Carlo V a Granada, tra atmosfere per lo più cupe e la rara magnificenza dei costumi ulteriormente valorizzati dalle disposizioni per tableaux-vivants, con vertice alla chiusura del terz’atto.

In prospettiva similare l’esperta direzione di Marco Armiliato garantisce forza alla musica e al dramma – chiara l’efficacia sin dalla tornitura nel plastico Preludio dei rispettivi temi, del giuramento e d’amore – dando forma in soluzione serrata e dalla prospettiva coesa a tensioni e turgori, fra scelte metriche stringate, spessori timbrici e impennate dinamiche, giocate di volta in volta a contrasto con le dilatazioni di ritmo e atmosfere laddove ricercate dagli andamenti e dal canto. Le cabalette, le strette e i finali ne risultano di smalto vivo e brillante, i cantabili di portamento nobile e sempre ben sostenuti, al di là delle diverse linee ed esposizioni espressive, fra arcate e respiri.

Rispondendo quindi alla necessità di un quartetto di grandi voci, i ruoli dei protagonisti risultavano assegnati a quattro interpreti parimenti all’apice del circuito lirico internazionale.
Per Ernani, come accennato, tornava il tenore, Francesco Meli, riconosciuto artista di riferimento per il repertorio verdiano e, nello specifico, per la parte del nobile Don Giovanni d’Aragona per metà dell’opera sotto le spoglie di bandito quindi di ospite, amante riamato da Elvira ma vinto dalla parola data nel patto stretto con l’antagonista e Grande di Spagna Don Ruy Gomez de Silva, cui la fanciulla e nipote sta per andare in sposa. Al netto di qualche lieve velatura, l’Ernani di Meli s’impone per la luce peculiare del timbro e per la rara eleganza nella costruzione di ogni frase, restituendo al protagonista vigore e nobiltà di accenti in virtù di un’emissione che corre facile fra legati, squilli, smorzature e raffinate variazioni. La sua per nulla facile cavatina “Come rugiada al cespite” si espande attraverso morbide arcate cantabili a fronte del piglio stentoreo sfoderato a partire dalla successiva cabaletta (O tu, che l’alma adora) e nei pezzi d’assieme, come nei rispettivi terzetti al II e IV atto (“Oro, quant’oro ogni avido” e “Ferma, crudele, estinguere”), svettando per tempra appassionata e sempre assai sincera.

Al suo fianco, il soprano americano Angela Meade conferisce a Elvira voce verdiana piena, grande resistenza e ampia estensione, saldamente dominando il ruolo sin dalla celebre cavatina “Ernani!… Ernani, involami” e sfoderando dalla cabaletta (Tutto sprezzo che d’Ernani) non comune forza d’attacco e di carattere, sicurezza nelle diverse dinamiche, efficacia di trilli, filati e colori a pasta densa più che in quota d’agilità. Ne risulta una donna vera, più che fanciulla, sin dal principio dalla volontà fermissima, così come d’altra parte chiaro è nel testo già al I atto laddove, dinanzi al riconosciuto re Carlo, si dichiara pronta a pugnalare lui e se stessa pur di difendere il proprio onore. Nel magnifico terzetto finale è, neanche a dirlo, la sua voce forte e tagliente a garantire il motore e il medium canoro atti a collegare registri e istinti così divergenti, fra lo slancio di Ernani e l’affondo di Silva.

Di solidità granitica e di bel timbro scuro, così come si conviene, è quindi il Silva del basso russo Evgeny Stavinsky che, in coda alle presentazioni principali al I atto, emerge per qualità di tinta e proiezione con il suo morbido cantabile correttamente eseguito “fra sé” nella cavatina “Infelice!… e tuo credevi” non corredata, giustamente, dall’avvincente (ma fuori versione originale) cabaletta “Infin che un brando vindice”. Al top della forma per potenza sonora, altezza di stile, prestanza scenica e duttilità espressiva, trionfa meritatamente il baritono francese Ludovic Tézier che va a scolpire un re Carlo V d’Asburgo, di lì a breve incoronato imperatore, sfaccettandone lo slancio erotico, il coraggio eroico e la generosa clemenza. Magnifica, a tal merito, la sua prova in primo piano assegnatagli da Verdi fra II e III atto, declinando con le migliori risorse ed espansioni espressive l’aria “Lo vedremo, veglio audace”, la cabaletta “Vieni meco, sol di rose”, l’aria “Oh, de’ verd’anni miei” e l’arioso al Finale III.
Ben istruito per tecnica e suggestioni di colore il Coro, sia nella sezione femminile che maschile, quindi più che soddisfacenti gli altri artisti presenti nel cast: Marianna Mappa nel ruolo di Giovanna, Rodrigo Ortiz per Don Riccardo e Alessandro Della Morte nella parte di Jago, tutti lodevolmente scelti dal Progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2021/22
ERNANI
Dramma lirico in quattro parti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Elvira Angela Meade
Ernani Francesco Meli
Don Carlo Ludovic Tézier
Silva Evgeny Stavinsky
Giovanna Marianna Mappa*
Riccardo Rodrigo Ortiz*
Jago Alessandro Della Morte*

*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program
del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Luci Vinicio Cheli
riprese da Valerio Alfieri
Movimenti mimici Michele Cosentino
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
in coproduzione con Sydney Opera House

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