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Roma, Teatro dell’Opera – Alceste

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Opera centrale e di snodo per la riforma del nostro teatro in musica del secondo Settecento, poema catartico del dolore e dell’amore coniugale, nonché punto di emblematico raccordo tra l’antichissima e già tanto avanti fonte euripidea, le nuove istanze d’Arcadia (semplicità, naturalezza e verosimiglianza), l’imminente sentire romantico, il modello italiano e la tradizione di Francia. E, nell’illuminata liaison con la Grecia classica, in viva interazione fra testo poetico, partitura e danza. Il tutto, aprendo da Vienna le porte verso una modernità colta al volo, innanzitutto, da Jommelli e da Mozart. Dunque più che una scelta antiquaria, qui in Italia se di radici, sostanza e cultura per le Fondazioni liriche si vuole parlare, è uno sguardo allo specchio importante il portare oggi in scena l’Alceste di Gluck e Calzabigi. Preferibilmente, nella per nulla datata versione originale viennese in lingua italiana (1767) contenente nell’edizione a stampa la celebre Prefazione con i dettami della riforma avviata cinque anni prima con il ben più frequente Orfeo ed Euridice ma, anche, nella più raffinata versione parigina del 1776, secondo quanto proposto con vivo successo in queste sere al Teatro dell’Opera di Roma in coda alla stagione lirica in corso.

Il titolo, assente al Costanzi dal 1967, quando a dirigerla fu Vittorio Gui e a cantare nel ruolo di punta c’era la magnifica Leyla Gencer, è arrivata per la prima volta nella versione francese e con un allestimento in prima nazionale. La produzione è infatti di pregio, e non solo per il respiro europeo che da tutti i pori emana lo spettacolo essenziale eppur monumentale tenuto a battesimo tre anni fa alla Bayerische Staatsoper di Monaco per la regia e coreografia del pluripremiato danzatore belga, classe 1976, Sidi Larbi Cherkaoui. Un artista che adopera e sa coniugare con sapienza in soluzione pulitissima i diversi linguaggi in campo avvalendosi della drammaturgia di Benedikt Stampfli, delle scene limpide di Henrik Ahr, dei costumi evocativi e dotti (i riquadri-toppa sulle vesti dei protagonisti richiamerebbero la tirata di orecchie di Aristofane che nelle sue Rane accusa Euripide di aver vestito di stracci i re) di Jan-Jan van Essche, dei contrasti decisivi fra ombra e luce a firma di Michael Bauer. Minimi gli elementi per la scena, alta quindi remota rispetto al palco, incorniciata tra la parete scorrevole di fondo e tre quinte laterali a pannello che, di volta in volta rappresentano le mura della città di Fera, le porte aperte del palazzo del re Admeto, il tempio di Apollo, le gabbie con le anime nere degli Inferi. Giusto in aggiunta, pochi blocchi di pietra bianca che, assemblati in maniera scomposta, alludono alla continua minaccia sul trono. E nulla di più perché l’azione, al pari del modello consegnato dalla drammaturgia antica, è di nuovo al centro del teatro musicale riformato (analogo sarà l’obiettivo anche in Wagner, sempre guardando al modello greco) per un migliore equilibrio fra parola e musica superando l’ormai vetusta struttura metastasiana a tasselli, quindi oltre l’aria, a vantaggio di cornici scenico-drammatiche dalla solennità pararituale, cui concorrono in misura portante sia il coro che la pantomima onnipresente.

Prima ancora dei solisti, meritano particolare attenzione infatti le masse, calibrate e guidate in osmosi con mano felicissima. In misura non dissimile da quanto ideato vent’anni fa per il San Carlo di Napoli dalla coreografa americana Karole Armitage firmando regia e coreografia dell’Orfeo ed Euridice, la danza qui affidata ai dodici, eccellenti artisti della Compagnia Eastman di Anversa, contrappunta e integra costantemente l’azione in funzione narrativa e simbolica in linea con i movimenti dei coreuti su schema triadico negli stasimi antichi così come nel rispetto dei principali punti della riforma gluckiana. E lo fa ricorrendo a gestualità archetipiche e d’avanguardia combinando linee purissime a scatti geometrici lungo il filo di una plasticità che avvolge mirabilmente di volta in volta i protagonisti in ruote, girotondi, scrigni, vortici e fasce di tessuto, con dinamiche velocissime di polsi e braccia, movimenti eterei o a sincrono, qualche accenno di breakdance, chiuse statiche a valenza pittorica. Per poi finire sui trampoli e in inquietanti abiti neri per il luogo spaventoso degli Dei infernali alla scena terza del terzo e ultimo atto fungendo, tipo Momix, da archi all’ingresso della terrorizzata Alceste e simulando il volo di giganteschi pipistrelli. I danzatori del gruppo multietnico, tutti bravissimi, meritano ciascuno una speciale menzione: Shawn Fitzgerald, Dayan Akhmedgaliev, Stephanie Amurao, Yeman Brown, Stephanie Kim, Kazutomi “Tsuki” Kozuki, Marina Kushchova, Patrick Williams Seebacher, Anna Senognoeva, Astrid Sweeney, Jonas Vandekerckhove, Pol Van den Broek. In aggiunta, a contorno, gli allievi della Scuola di Danza dell’Opera di Roma, con i due deliziosi bimbi (Eumelo e Aspasia) totalmente silenti e genericamente appellati Fils nella versione di Parigi.

In via analoga il Coro della Fondazione lirica capitolina, curato ancora una volta in misura esemplare da Roberto Gabbiani, garantisce monumentalità sublime all’intera costruzione scenico-drammatica sfoderando stile esatto, un non facile equilibrio adamantino fra i registri e, al contempo, forza d’impatto da coro tragico greco. Al di là di qualche scarto metrico imputabile alla serrata velocità dal podio, l’intera compagine ha risposto al meglio alla sua funzione di supporto, contorno e connessione fra quadri e sezioni, mostrandosi inoltre, con tecnica salda e timbrica luminosa, ovunque in piena intesa sia con gli sperimentali innesti dell’Alcesti euripidea, sia con quanto disposto dall’elaborazione della tragédie opéra. Assolve dunque con pari efficacia al ruolo di autentico personaggio-simbolo del contrasto fra individuo e società, virtù privata e vita pubblica secondo il punto cardine dell’etica classica ma funge anche, oltre la massa, da deuteragonista fondamentale entro un’estrema varietà di formule impiegato, com’è, per voci soliste, per sezioni innodiche grandiose, per brevissime battute in dialogo, per sottolineare il mutare emotivo.

Un ulteriore, grande merito ai fini della tornitura stilistica e a garanzia della tenuta complessiva dell’impresa, spetta al direttore e all’intera Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Sul podio, nell’occasione, c’è Gianluca Capuano, musicista milanese da sempre attento al repertorio barocco e al Settecento in senso lato, molto attivo al fianco di Cecilia Bartoli e dal 2019 alla guida de Les musiciens du Prince. Già alla testa dell’Orfeo ed Euridice romano di tre anni fa, sarà lui infatti a dirigere nell’imminente stagione il Giulio Cesare in Egitto nel nuovo allestimento firmato Michieletto e, in concerto, “I tre controtenori” Carlo Vistoli, Raffaele Pe e Aryeh Nussbaum Cohen.
I tempi staccati con polso rigoroso da Capuano sono per lo più serrati (talvolta giusto in attacco semina il Coro) ma mai difettano nella puntualità di scavo e di dettaglio. A partire dall’Intrada rapinosa e intensa al contempo, ne emerge un ampio affresco dalle non rare anticipazioni mozartiane (Idomeneo e Don Giovanni), ben studiato nello stacco ritmico e nella peculiarità dei timbri, vivo nelle espressioni cantabili, teatrale negli effetti e nei recitativi accompagnati, ben chiaro nelle situazioni drammatiche polarizzate intorno ai principali nuclei tematici: la malattia del re Admeto, il responso dell’oracolo (“Le roi doit mourir aujourd’hui / si quelque autre au trépas ne se livre pour lui”, dal più efficace originale “il re morrà / s’altrui per lui non more”), la magnanima decisione di Alceste, l’antitesi fra umano e divino, la rivelazione, la discesa agli inferi, il lieto scioglimento grazie al deus o, meglio, amicus ex machina Hercule. Ne risulta un Gluck potente e concertato a dovere, ben poggiato sulla spiccata prestanza degli archi, sul bel colore e sulla precisione dei fiati, sul notevolissimo controcanto del primo fagotto.

Infine le voci. L’Alceste del mezzosoprano Marina Viotti con qualità crescente dà forma e voce alla complessità psicologico-canora della regina emblema della virtù coniugale tanto in voga (si pensi al Fidelio beethoveniano) al passaggio di secolo. È madre amorosa e sposa fedele, drammatica e statuaria nel rito delle offerte al tempio sperando di poter salvare la vita al re e marito, combattuta ma pronta per amore al sacrificio dei suoi più profondi affetti. E ancora: determinata nel confessare al termine la propria, drammatica decisione all’ormai salvo Admeto, regina gioiosa allo scioglimento finale. Il che si traduce, nell’occasione, in un’emissione di fibra assai tenera con significativi slanci (qualcuno purtroppo forzato) all’acuto, mai ridondante perché di stile semplice, legato alla parola, ritagliato fra il declamato, l’arioso e arie finalmente libere dal loop del da capo. Con il suo costante riverbero sul Coro e sugli altri personaggi, è quasi sempre in scena, credibilissima nel gesto come nella nobile tinta e nel morbido stile del suo canto, decisamente a taglio con la chiarezza e la verità richieste dai riformati obiettivi in pentagramma.
Al suo fianco, dal secondo atto in poi, c’è l’Admète del tenore Juan Francisco Gatell, voce chiara ma robusta, sempre ben proiettata secondo una linea che, in via graduale, aumenta in sostanza dinamica e timbrica man mano che il personaggio, di minor virilità rispetto alla coraggiosa Alcesti in Euripide, cresce in statura e coraggio. Fra gli apici se ne segnalano i confronti in duetto con la moglie al secondo e al terz’atto.
Di volume imperioso e dal piglio scattante è il basso Luca Tittoto nel doppio e diverso ruolo del Grand Prêtre (efficace assai nell’aria con Coro da Singspiel mozartiano “Dieu puissant, écart du trône”) e del meno austero semidio risolutore Hercule, assente nel libretto in italiano. Di buon livello l’Évandre del tenore Patrik Reiter, bravi l’Apollon del baritono Pietro Di Bianco (impegnato anche per l’Hérault d’armes) e l’Oracle (più Dieu infernal) del basso Roberto Lorenzi. Da segnalare anche i quattro Coryphées (Carolina VarelaAngela NicoliMichael Alfonsi Leo Paul Chiarot) con il soprano portato (e costretto a cantare) come in croce a testa in giù. Tanti gli applausi, ai saluti finali, per tutti. Si segnala, al margine, che la rappresentazione del 13 ottobre sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2021/22
ALCESTE
Tragédie Opéra in tre atti di Marius-François-Louis Gand Lebland,
Bailli du Roullet da Ranieri de’ Calzabigi
 (versione parigina 1776)
Musica di Christoph Willibald Gluck

Alceste Marina Viotti
Admète Juan Francisco Gatell
Evandre Patrik Reiter
Le Grand Prêtre / Hercule Luca Tittoto
Apollon / Un Hérault D’armes Pietro Di Bianco
Un Dieu Infernal / L’oracle  Roberto Lorenzi
Coryphées Carolina Varela, Angela Nicoli,
Michael Alfonsi, Leo Paul Chiarot

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Eastman, Anversa
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e coreografia Sidi Larbi Cherkaoui
Assistente alla regia Acacia Schachte
Regista assistente Giulia Giammona
Assistente direttore d’orchestra Benedikt Sauer
Scene Henrik Ahr
Costumi Jan-Jan Van Essche
Luci Michael Bauer
Drammaturgia Benedikt Stampfli
Con la partecipazione degli Allievi della Scuola di Danza
del Teatro dell’Opera di Roma

Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
da una produzione Bayerische Staatsoper
Roma, 9 ottobre 2022

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