Allestire un’opera di Richard Wagner non è mai una cosa banale. Si tratta di confrontarsi con una drammaturgia articolata e carica di sensi, con un linguaggio musicale avanzato che molto pretende dalle masse e dai solisti, con una lingua ostica per chi germanofono non è, e per i neolatini in particolare. Nel caso italiano, poi, si tratta anche (e forse soprattutto) di far fronte a preconcetti radicati nella nostra storia e mai davvero sopiti, secondo i quali le opere di Wagner sono il prodotto di una mente artistica grandiosa (per qualcuno pretenziosa anzichenò), ma difficili da apprezzare per la loro concettosità, se non proprio urticanti per contenuti-linguaggio-dimensioni. In altre parole, occorre fare i conti con annosi malintesi italo-tedeschi che si reggono sull’incontro/scontro inesausto fra identità culturali e sensibilità artistiche molto distanti l’una dall’altra (o percepite come tali). È stata quindi coraggiosa la scelta del Teatro Valli di Reggio Emilia di inaugurare la sua stagione con Tannhäuser, montando uno spettacolo coprodotto col festival operistico OH! di Heidenheim an der Brenz (dove ha esordito nel giugno scorso) e col Comunale di Modena (che lo ha allestito un paio di settimane fa).
Per l’azione (conscia o inconscia poco importa) di quei preconcetti di cui sopra, quando si fa esperienza di Wagner in una città di provincia le aspettative sono bassine – per non dire che si va a teatro con un po’ di puzza sotto il naso. È quindi non solo una sorpresa, ma anche una bacchettata sonora e salutare alla supponenza, l’accorgersi che lo spettacolo provinciale in senso geografico è tutto meno che provinciale sotto l’aspetto artistico. Le prime battute dopo l’alzata del sipario, a voler esser franchi, sembravano annunciare maretta: per l’orchestra contratta, con sfasature ben percepibili sulla quadratura ritmica, per le scenografie tutt’altro che piacevoli, e anzi spoglie e disturbanti con l’incombere di teloni e oggetti in plastica, per i mimi androgini che agivano una scena spiacevole, brutta, ma al contempo sottilmente conturbante. E però, chiusa l’ouverture, che in questo caso ha svolto davvero l’ufficio suo più tradizionale, quello cioè di scaldare i motori dei musicisti e risvegliare l’attenzione del pubblico (o, meglio, sintonizzare la sua sensibilità alle frequenze del messaggio teatrale), lo spettacolo s’è presto messo sui binari migliori.
Allestimento tedesco, e allestimento alla tedesca, nel senso di Regieteather, quello di Georg Schmiedleitner. Il monte di Venere è un motel squallido abitato da sex workers donne e transessuali (i mimi di cui sopra), mentre Venus agisce da giunonica maîtresse. Tannhäuser, in tuta di acetato anni Novanta, ha tutta l’aria dell’emarginato versato a ogni eccesso (ci viene presentato di spalle, ad annoiarsi davanti a una slot machine). È un Tannhäuser dell’oggi quello che costruiscono il regista e i suoi collaboratori (i costumi sono di Cornelia Kraske, le scene di Stefan Brandtmayr, le luci di Hartmut Litzinger), un oggi antipoetico, distonico, morboso: in ultima analisi, grottesco. La vicenda di Tannhäuser è quella di un uomo alla ricerca inesausta di esperienze nuove, di eccessi materiali ed emotivi, ma schiacciato da questa sua ansia e, infatti, votato all’autodistruzione. Non c’è redenzione per lui alla fine del dramma, ma morte (per mano di Wolfram) e rivelazione della vacuità delle sue pene passate, con amor carnale (Venus) e amor spirituale (Elisabeth) che abbracciate corrono giulive di fronte ai suoi ultimi respiri. Al di là di alcune scelte concettualmente comprensibili ma drammaturgicamente deboli (leggi: i pellegrini del primo atto che diventano consumatori con tanto di carrelli della spesa in attesa del dio-Black Friday), lo spettacolo funziona e coinvolge, e forse per qualcuno sconvolge: non sono mancati buu sonori a fine spettacolo indirizzati con tutta probabilità al regista – che forse si sarà sentito fischiar le orecchie, dato che in teatro non c’era.
Applausi senza esitazioni (francamente meritati) ha raccolto invece il comparto musicale tutto dello spettacolo. S’è detto delle esitazioni iniziali dell’orchestra, l’ORER Toscanini, che però si è poi pienamente riscattata sotto la guida efficace della bacchetta di Marcus Bosch. Bel gesto quello del direttore tedesco, che s’è servito di una tavolozza cangiante e ha posto l’accento sull’articolazione delle parti e dei temi, e sulla qualità delle voci, senza troppo concedere alla retorica o, peggio, agli sdilinquimenti della cattiva tradizione romantica. Di tanto in tanto si sarebbe voluto maggior corpo sonoro, ma sarebbe allora servita un’orchestra più nutrita, e, giocoforza, un golfo mistico più spazioso. Magnifica la prova del coro filarmonico ceco di Brno: per equilibrio fra le parti, per morbidezza di suono, per controllo delle dinamiche. Un corpo sonoro di rara qualità, compattezza e malleabilità.
Benissimo assortito anche il cast vocale. Nella parte del titolo, James Kee ha sfoggiato una voce grande e di bel colore, e s’è mostrato perfettamente calato nel vestito teatrale cucitogli addosso, facendo ben emergere la caratterizzazione psicologica borderline di Tannhäuser con accenti di ruvida espressività. Ottima anche Leah Gordon nei panni di Elisabeth, che s’è fatta apprezzare per il suono limpido e corposo della voce: una prova in crescendo la sua, culminata sugli accenti commoventi del suo congedo dalla vita all’inizio del terz’atto. Di spessore le prove di Tijl Faveyts (Hermann), il cui organo difetta un po’ di spessore ma è benissimo utilizzato, e di Heike Wessels (Venus), che abbonda di voce e di credibilità attoriale. Più che convincenti sotto ogni profilo il giovane pastore e i quattro cantori, con Birger Radde a spiccare sugli altri per la splendida caratterizzazione della figura di Wolfram, affatto ambigua nella lettura voluta dal regista.
Teatro Municipale Valli – Stagione d’opera 2022/23
TANNHÄUSER
Opera in tre atti su libretto e musica di Richard Wagner
Hermann, Landgraf von Thüringen Tijl Faveyts
Tannhäuser James Kee
Wolfram von Eschenbach Birger Radde
Walther von der Vogelweide Martin Mairinger
Biterolf Young Kwon
Heinrich der Schreiber Christian Sturm
Reinmar von Zweter Gerrit Illenberger
Venus Heike Wessels
Elisabeth Leah Gordon
Ein junger Hirt Julia Duscher
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Czech Philharmonic Choir Brno
Direttore Marcus Bosch
Regia Georg Schmiedleitner
Assistente alla regia Georg Simonsky
Scene Stefan Brandtmayr
Costumi Cornelia Kraske
Luci Hartmut Litzinger
Direttore del coro e primo maestro Petr Fiala
Secondo maestro del coro Michael Dvořák
Nuovo allestimento
Coproduzione Opernfestspiele Heidenheim OH!
Fondazione Teatro Comunale di Modena,
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Reggio Emilia, 18 novembre 2022