Il Teatro Regio di Torino concentrò, sul finire del 2008, molte delle sue energie produttive sull’allestimento di Thaïs di Massenet in onda giovedì 20 gennaio, alle ore 10, su Rai5.
Stefano Poda, all’epoca al suo esordio in Italia, firmò regia, scene e costumi di uno spettacolo di filosofeggiante decorativismo simbolico, dalle mille sollecitazioni visive, con luci accuratissime e movimenti coreografici di ballerini e mimi che imbrigliano la sensualità dell’opera in una dimensione scenografica macchinosamente sontuosa, talvolta decontestualizzata dal discorso drammatico e dalla vicenda stessa. Una impostazione che provoca indubbio stupore da un lato e, dall’altro, una sostanziale staticità dei personaggi e dei loro movimenti, a sfavore della comprensione del trapasso psicologico che mostra la conversione incrociata dei due protagonisti in un gigantesco ambiente bianco dove la decadenza morale della cultura ellenica alessandrina vive di nudità ingessate di ballerini che paiono evocare il sacrificio di monaci vessati e imbrigliati dalla mortificazione corporale: anime perdute in ambienti dove oggetti e installazioni artistiche (una sorta di gipsoteca della casa-palazzo di Thaïs, con tante statue di Nike di Samotracia alle quali vengono staccate le ali, come a voler indicare la separazione dell’anima dal corpo) finiscono col mostrare la comprensione dell’opera piuttosto concettosa.
Nonostante il ricercato manierismo dello spettacolo, colpì, all’opposto, l’interessante taglio musicale donato dalla concertazione di Gianandrea Noseda, allora nuovo ai climi della musica francese e, nello specifico, a quella di Massenet. Il valore aggiunto della sua direzione è percepibile nell’impegno adoperato per cercare colori e timbri adatti a far scaturire in orchestra quel profumo di esotismo dietro il quale si nascondono gli umori di un simbolismo decadente che ancora non riesce a prendere totalmente il sopravvento sulla naturale vocazione alla melodia; vocazione che Massenet spesso stempera in rarefazioni che evocano climi lussureggianti di un Oriente non più romanticamente idealizzato nelle forme musicali ma calato in quella dimensione espressiva che ricorda, per contrasto, la dialettica fra sensualità e ascesi, fra peccato e redenzione, ponendo al centro di tutto il potere incantatorio della seduzione femminile con un languore raffinatissimo, eppure intriso di quel sentore di disfacimento che rende l’opera misteriosamente enigmatica, come la direzione di Noseda fa ben percepire. Per questo la sua bacchetta, che è un condensato di tormentata energia e slarghi lirici mai estetizzati, chiede e ottiene dall’Orchestra del Regio un suono forse non sinuoso e languoroso ma cangiante nei ritmi (se ne ha prova nei balletti del secondo atto), capace appunto di dilatarsi in oasi di un lirismo lontano da ogni tentazione mollemente mielosa e di cogliere, per contrasto, il doppio registro espressivo che separa la voluttà del piacere dall’estasi della redenzione intesa come viaggio spirituale che approda alla conoscenza della propria interiorità. Per ottenere questo è necessario indagare sulle inquietudini che mano a mano pervadono la protagonista, la quale, dinanzi all’ineluttabile scorrere del tempo destinato a porre fine al potere seduttivo della sua bellezza, reagisce con una redenzione più interiore che spirituale, acquisendo quella estenuata malinconia che sembra abbracciarla facendo di lei un’eroina del piacere convertita alle ragioni dello spirito e, nel finale, una creatura serenamente angelicata.
Certo non è facile cogliere il trapasso psicologico tormentato di un personaggio che Massenet pensò per Sybil Sanderson, soprano il cui fascino faceva impazzire i parigini, nota per l’incredibile estensione della sua vocalità. Barbara Frittoli, in quell’occasione non al massimo delle sue ben conosciute qualità di soprano lirico, delineò una protagonista composta e misurata, anche se il re sopracuto che conclude l’”Air du miroir”, così come quelli del duetto finale col cenobita Athanaël (il robusto e vigoroso baritono georgiano Lado Ataneli, che perde la vocazione all’ascesi a favore delle pulsioni che rendono il suo personaggio molto carnale) furono prudentemente omessi. Al Nicias del tenore Alessandro Liberatore si affiancarono, nei ruoli di contorno, ottimi cantanti, fra i quali ci piace ricordare Eleonora Buratto, a quel tempo non ancora affermata, nei panni di una delle due frivole schiave (Crobyle), al fianco di Ketevan Kemoklidze, Myrtale. Poi Maurizio Lo Piccolo, il vecchio cenobita Palémon, Nadezhda Serdyuk, la badessa Albine, l’ottima Daniela Schillaci, La Charmeuse e Diego Matamoros, Un servitore.