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Pesaro, Rossini Opera Festival 2022 – Le Comte Ory

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Come una tegola in testa. Gli accordi perentori su cu si apre Le Comte Ory di Gioachino Rossini, titolo inaugurale della XLIII edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro, coincidono con l’illuminarsi improvviso del palcoscenico: delimitato da una cornice di neon, Il giardino dell’Eden di Hieronymus Bosch pende, sghembo, sulla scena. Ed è subito Medioevo.

Con una raffinata citazione d’autore Hugo de Ana, responsabile unico della nuova produzione, ambienta una delle partiture più sfuggenti del Pesarese: in gran parte nata grazie alla rielaborazione del materiale del Viaggio a Reims, ma che – come tutte le opere del periodo parigino – risponde a esigenze culturali, storiche e musicali estremamente complesse. Si basa, infatti, su uno dei libretti più gustosi composti da Scribe, questa volta en société con Delestre-Poirson, in cui viene recuperata e ampliata una romance «assezpiquante» dedicata al Comte Orry et les nonnes de Formoutier, inclusa da Pierre-Antoine de La Place nelle sue Pièces intéressantes et peuconnues. Materia quasi boccaccesca, in linea con una passione per la temperie trovadorica che sin dal secondo decennio dell’Ottocento fornisce spunti significativi al teatro musicale francese: tre anni dopo Ory, Robert le diable sarà forse la punta dell’iceberg di una ricerca storica che costituisce uno dei più significativi filoni della drammaturgia di Scribe. E tuttavia proprio Scribe decise di ritirare la firma dal libretto dell’opera rossiniana, evidentemente rimaneggiato in più punti tanto da comprometterne l’idea originale. Di più. Basta una lettura dell’eccellente programma di sala, con saggi a firma di Emanuele Senici e Mark Everist, per immergere l’ascoltatore in una delle polemiche storiografiche che, da un decennio a questa parte, concerne i generi teatrali francesi di primo Ottocento, attesa la presunta appartenenza dell’opera ai canoni di quel petit opéra, privo di divertissement coreografico, destinato a fare da contraltare alle incipienti fortune del grand opéra, la ‘macchina’ più composita immaginata per le scene parigine. Ogni ripresa dell’opera appare dunque utile per ampliare le prospettive, rilanciare la ricerca, alimentare il dibattito: come avviene anche in questa circostanza, atteso che, dissimilmente dal criterio normalmente adottato dal Festival, non è stata adottata l’edizione critica dell’opera, assente nell’ormai storica raccolta ricordiana e realizzata invece da Damien Colas, nel 2014, nella serie dei Works of Gioachino Rossini diretta da Philip Gossett per i tipi di Bärenreiter. Non che l’esecuzione dell’opera non ne possa prescindere: ma a rischio – come in questo caso – dell’integralità, posto che Le Comte Ory è stato presentato in una versione priva di alcuni passaggi, soprattutto a carico del Prélude come del Finale secondo, che risolve sin troppo rapidamente la vicenda.

Considerazioni preliminari, queste, utili forse a comprendere quanto il titolo inaugurale di quest’anno fosse meno semplice del previsto e per questo carico di aspettative, che tuttavia non sono state deluse: a cominciare dalla presenza di Juan Diego Flórez, ritornato a vestire i panni dell’eponimo «châtelainredouté» per inaugurare la sua direzione artistica del Festival, diciannove anni dopo la sua apparizione pesarese, incisa dal vivo e pubblicata l’anno successivo in un’edizione divenuta oggi di riferimento. Qualcosa è cambiato, rispetto a quel periodo, ma l’essenziale è senz’altro rimasto: forse la cavatina di sortita è appena più prudente, come il successivo duetto, ma intatto è lo smalto, la superiore bellezza di uno strumento luminoso, limpido nel registro acuto, semplicemente esemplare nel legato come nelle smaglianti fioriture. Riesce a infiammare anche pagine come il coro «Ah! la bonne folie!» (delizioso il do con cui corona le sue strofe), con impagabile freschezza e vivacità. Quello che, se possibile, il tenore peruviano ha ulteriormente affinato è una musicalità di rara raffinatezza: il Terzetto finale, «À la faveur de cette nuit obscure», è un piccolo, grande miracolo di eleganza e di leggerezza, al tempo stesso ironico e seducente, morbido e sognante, in cui la capacità di alleggerire il suono viene piegata a fini espressivi con grazia, prestanza, gusto superiore. Interprete scatenato sulla scena, tratteggia un aristocratico divertito e divertente, dongiovanni impenitente e sempre in cerca di nuove, irriguardose avventure, mai pago di conquiste, vere o presunte, che gli allietano l’esistenza: «l’aventure est jolie», commenta infatti, senza sovraccaricare tiri burloni che hanno l’unico scopo di far sorridere.

Quanti lo circondano sono all’altezza del compito. Sugli scudi la splendida Comtesse di Julie Fuchs, al suo attesissimo debutto pesarese. La sua Cavatina – rimaneggiata, è quella di Folleville del Viaggio a Reims – è semplicemente incantevole, per l’ironico cipiglio e la grandiosità con cui affronta un’aria da opera seria: nella tristezza che la anima c’è quasi un’ebbrezza tradotta da una coloratura di forza sgranata con vigorosa energia; fino alla languida morbidezza dell’appello a un eremita «que l’on dit sensible», pronto a scioglierla dal tragico inconveniente di una promessa fin troppo azzardata. Il richiamo dei corni, che fanno eco alla «touchante prière», si scioglie nella solennità della cabaletta, «Céleste providence», affrontata con siderale sicurezza e scioltezza fino al si bemolle sovracuto. Anche nel secondo atto conferma un ritratto in crescendo, non solo nel Duetto con Ory, quanto soprattutto nell’atmosfera rarefatta del Terzetto, al quale contribuisce con timbro flautato. Di pregio anche la partecipazione di Maria Kataeva, che dà nobile consistenza al paggio Isolier: con il suo strumento di levigato velluto, è un Cherubino maturo, impiccione e già pronto per altolocate conquiste. Nel gioco dei travestimenti e delle sostituzioni, la sua voce si fonde a meraviglia con quella sopranile nel Terzetto, irrinunciabile trait d’union del flusso di corrente erotica che lega e irretisce i personaggi: le spetta la frase più bella del numero, «Beauté sévère, | Laissez-le faire; | Son bonheur ne vous coûte rien», un fremito di sentimento in purezza.

Tra gli altri interpreti figura il Gouverneur di Nahuel Di Pierro: la centralità della tessitura ben si adatta a una resa attenta alla magniloquenza sorniona del ruolo; di bella caratura la coloratura nella coda dell’Aria, in cui «à la guerre comme à la chasse» si ripropone di partecipare alle nobili, amorose imprese di Ory. Un passo più indietro invece il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, cui una scarsa proiezione impedisce di rendere con smalto ed arguzia la conquista delle cantine del castello di Formoutiers, esemplate sull’irresistibile calco di «Medaglie incomparabili». Nei panni di un’ancor vogliosa dame Ragonde, Monica Bacelli supplisce con la verve alle molte primavere dello strumento, mentre Anna-Doris Capitelli è un’Alice piccante e civettuola.

Il racconto del Comte Ory non passa soltanto attraverso la scena. Tiene saldamente le redini dell’esecuzione Diego Matheuz, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, certo non adusa alle produzioni operistiche, ma forse per questo ancor più in possesso di un colorito strumentale capace di valorizzare la sapida orchestrazione di questo Rossini francese. Lo si evince sin dal carattere rapsodico del Prélude, intessuto di pause e di interrogativi, esitazioni e misteri, austeri richiami di corni che sfociano nella fanfara che accompagnerà l’agnizione del Comte Ory. Matheuz impronta l’intero primo atto alla solarità delle scene di massa, perfettamente sostenute dal Coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina, come alla caratterizzazione delle sortite dei singoli personaggi; mentre poi sceglie una tinta romanticamente più contrastata per il secondo, a partire dal temporale che scompiglia i destini del castello. Dentro e fuori le mura, la folle journée viene punteggiata di formidabile ironia, come nella barcarola che supporta le richieste di un’«hospitalité» in falsetto della finta soeur Colette; e che troverà notturno, sospeso pendant nel Terzetto, prima di una conclusione folgorante quanto eclatante.

Hugo de Ana rintraccia la cifra dello spettacolo, come si è anticipato, nel richiamo al Trittico del Giardino delle delizie di Bosch: Il giardino dell’Eden funge da sipario all’incipit dei due atti, il lago con la ‘Fontana della vita’ del Giardino delle delizie fa da sfondo al primo atto, mentre l’uomo-albero dell’Inferno musicale occupa la scena nella sua ricostruzione tridimensionale. L’intento è evidente: mettere tra virgolette un Medioevo fatto di angeli e demoni, di creature fintamente sante e ancor più fintamente diaboliche, esattamente come Rossini e Scribe creano Le Comte Ory a partire da una ballata popolare opportunamente ricostruita, dilatata, ampliata a dismisura. Il risultato è giubilatorio, ridondante, esuberante, vivace: lo attestano i costumi – splendidi quelli del coro, con tanto di rigogliosi, coloratissimi cespugli fioriti sulla testa delle signore – come pure le scene, a un tempo lineari, delimitate da rette al neon, e debordanti della creatività di Bosch. L’insieme, insomma, si apprezza per il colpo d’occhio a distanza, fondamentale in uno spazio smisurato come quello dell’Arena Vitrifrigo, ma anche per la cura maniacale del dettaglio.

Dentro la ‘camera azzurra’ dello spettacolo risiede il frutto di una ricerca condotta con acribia: Ory sonnecchia all’interno dell’uomo-albero, in cui molti commentatori hanno visto la rappresentazione dell’Anticristo, per diffondere quel piacere dei sensi che rischia di trascinare tutti all’inferno, lontano da quel paradiso terrestre fatto di dinosauri e civette, che sin dal Finale primo traversano la scena. C’è tutto, forse anche troppo: una rappresentazione mimetica del vitalismo rossiniano, tradotto in una prossemica ipercinetica di mosse e ancheggiamenti derivati dalla lezione di Ponnelle; e lo zoo variopinto che Dario Fo amava inserire nelle sue regie rossiniane; oltre a tutta una serie di trovate (la stella cometa che accompagna la sortita di Ory, le tavole della legge consegnate a Isolier che si illuminano a intermittenza, l’arrivo di soeur Colette su un monopattino) destinate a scatenare l’ilarità del pubblico, non senza ragione. Perché de Ana ragiona sulle strategie del comico rossiniano, lo ancora alle sue radici storiche (in questo caso medievali) ma non esita a strizzare l’occhio ai nostri giorni, come nella seduta di ginnastica cui attendono le dame di Formoutiers – un po’ come quello che è successo durante la clausura del lockdown. Ambiguo, enigmatico, inafferrabile: questo è l’universo del Comte Ory secondo De Ana. Tra demoni e ubriaconi, santi e peccatori c’è una sintesi della vita, uno spaccato del mondo, filtrato attraverso il rimpianto dell’eden perduto e la celebrazione delle gioie della vita. Nel Trittico di Bosch il senso sta tutto in un cartiglio, in cui sta scritto «Cave, cave, Deus videt» («Attenzione, attenzione, Dio vede»). Qui Rossini osserva e, speriamo!, sorride.

Rossini Opera Festival 2022
LE COMTE ORY
Opéra indue atti di Eugène Scribe e Charles-Gaspard Delestre-Poirson
Musica di Gioachino Rossini
Edizione Casa Ricordi

Le Comte Ory Juan Diego Flórez
Raimbaud Andrzej Filonczyk
Le Gouverneur Nahuel Di Pierro
La Comtesse Julie Fuchs
Ragonde Monca Bacelli
Isolier Maria Kataeva
Alice Anna-Doris Capitelli

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Diego Matheuz
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia, scene, costumi Hugo De Ana
Luci Valerio Alfieri
Nuova coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 9 agosto 2021

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