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Parigi, Palais Garnier – Le nozze di Figaro

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A quanto pare né il Covid che sta di nuovo riesplodendo in Francia né il freddo polare che arriva a bloccare i mezzi di trasporto sono riusciti a dissuadere il pubblico. Il Palais Garnier, la sede ottocentesca dell’Opéra national de Paris, era gremito per questa produzione delle Nozze di Figaro. Inutile avventurarsi a cercare un posto all’ultimo minuto. E qualche istante prima che risuoni l’ouverture, gli strapuntini sono stati tutti occupati, ricoprendo anche i corridoi tra le poltrone e creando un tappeto uniforme di persone senza più via di uscita. Chi soffre di claustrofobia sarà stato pure assalito da qualche dubbio. Per fortuna, arriva la musica di Mozart a scacciare le ultime perplessità e fobie.

Perché, diciamolo subito, è proprio la fossa a emanare un’indiscutibile magia che conquista, poco a poco, il teatro. Il direttore Louis Langrée, sempre raffinatissimo, ha ancora una volta fatto miracoli. È vero che è oggi uno dei più grandi interpreti del repertorio sette- e primo-ottocentesco. Da Grétry a Berlioz, passando per Beethoven – una sua Leonora del ’97 al Théâtre des Champs-Elysées resterà negli annali – e per Rossini, Langrée non delude mai. Anzi, sorprende sempre per un talento inesauribile. Inconcepibile attendersi scelte di tempo dozzinali, passaggi tirati via. Tutto è sempre millimetrato, pensato, calibrato. L’orchestra dell’Opéra de Paris, che ha tendenza a prendere il repertorio “italiano” un po’ sottogamba, ha invece rivelato un’estrema precisione tecnica, la cura per ogni sezione (tra cui i temibili fiati, messi alla prova da Mozart) e una paletta di colori assai ampia. Niente da dire: Langrée ci ha consegnato un Mozart da antologia.

E le voci? Ovviamente, il direttore le sa guidare, esaltare e far respirare. Tra la fossa e il palcoscenico, l’intesa è totale. Il cast maschile è semplicemente perfetto fino agli ultimissimi ruoli. Trionfa il basso-baritono Luca Pisaroni che veste, anche questa volta, i panni di Figaro, ruolo che gli va a pennello. È vocalmente imperiale, e attorialmente sempre credibile. Mai una sbavatura. Tecnica, fraseggio curatissimo, legato, potenza: Pisaroni ha più frecce nella faretra. Con lui “Aprite un po’ quegl’occhi”, che tanti interpreti macinano facendone un pezzo di routine, diventa una pagina crepuscolare, lancinante, mai volgare. Complementare e pure eccellente è il Conte del canadese Gerald Finley. La sua è una vera voce wagneriana (e, infatti, nel suo curriculum figurano I maestri cantori, Parsifal e Tannhäuser), un sapiente equilibrio tra potenza e timbro vellutato. Non sfigurano neppure James Creswell (Bartolo), Eric Huchet (Don Basilio), Christophe Mortagne (Don Curzio) e Franck Leguérinel (Antonio): tutti dalla voce ineccepibile e capaci di sfoderare veri doti di attore.
Nel cast femminile, ci sono poi bellissime soprese. Rachel Frenkel, al suo debutto all’opera parigina, è stata sommersa da applausi per il suo Cherubino: ne ha saputo rendere la vocalità quasi adolescenziale grazie a una sicura agilità tecnica e a un timbro sempre fresco. Da tenere sotto occhio la Barbarina di Ilanah Lobel-Torres: quanti brividi per la sua “L’ho perduta, me meschina” che di colpo ci ricorda come Mozart sia capace di trasformare in oro tutto quello che tocca. Jeanine de Bique è ormai un valore confermato. La sua è una Susanna dalla vocalità pettinata che gioca più su un legato ammaliante che sulla forza. La Contessa di Miah Persson ne esce a testa alta, anche se il confronto non la favorisce. Sophie Kock, Marcellina, sfodera una voce rotonda e quando vuole, specie negli alterchi con Susanna, un certo tono pungente. E infine come non rendere omaggio al coro, che sotto la direzione di Alessandro Di Stefano, ha raggiunto un ottimo livello per coesione e precisione?

Ahimè, su un tale cocktail di eccellenza, arriva la nota amara. Quella della regia di Netia Jones, che assicura pure le scene e i costumi e il video. Le va certo riconosciuto un grande lavoro: il suo non è mai un approccio superficiale e tirato via in quattro e quattr’otto. Purtroppo, sovrappone troppi livelli di riflessione in cui è difficile orientarsi. C’è la lettura politica perché Jones non ha dubbi sul fatto che tanto Le mariage de Figaro di Beaumarchais quanto l’adattamento mozartiano siano testi legati alla Rivoluzione francese (tesi questa ormai ampiamente rivista dagli storici del teatro e del melodramma). E siccome l’approccio politico deve essere “attualizzato”, come spiega la regista nelle sue note nel programma, ovviamente l’allusione al movimento #MeToo non poteva mancare. A questo, va aggiunto che specie gli uomini (ma non solo) quando possono si spogliano: si ritrovano in mutande quasi tutti, anche quando il physique du rôle non lo permetterebbe. E infine, c’è pure la dimensione meta-teatrale. Anche lì Jones ha le idee chiare: il teatro è lo specchio della società e dunque, tanto vale, rovesciarlo: il castello del Conte sono di fatto i camerini dell’opera in cui si muovono i cantanti, alias i personaggi. Tante piste che si incrociano e che si sovrappongono. A tal punto, che si ha l’impressione di essere in un bar con tanti televisori accesi su programmi diversi. Ma va detto che il pubblico, forse oggi avvezzo a passare da uno schermo a un altro, ha particolarmente apprezzato questa dimensione pluri-mediale.
Non stupirà di apprenderlo: uno scroscio di applausi ha travolto tutti gli artisti di queste Nozze.

Parigi, 13 dicembre 2022

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