Ritorna nell’immenso spazio dell’Opéra Bastille la produzione de Die Zauberflöte (Il flauto magico), firmata dal regista canadese Robert Carsen. Con un cast vocale abbastanza lussureggiante in cui soprattutto la presenza di Pretty Yende, nei panni di Pamina, creava forti aspettative. E ovviamente, vuoi per il titolo “popolare” di Mozart, vuoi per il prestigio del regista e degli interpreti (e vuoi per la voglia di tornare in una sala da concerto senza mascherina nell’era, più o meno, post-Covid…), il pubblico era numeroso, tanto da fare rispuntare i cartelli «Je cherche une place» che non si vedevano ormai da due o tre anni. Ma le speranze sono state tutte esaudite?
Cominciamo proprio da Carsen che all’Opéra national de Paris (e in generale nella capitale francese) è veramente di casa, a tal punto che tra novità e riprese il suo nome spesso intasa i cartelloni. Questo Flauto pare quasi la metà di un dittico insieme all’Orfeo ed Euridice di Gluck (riproposto a fine settembre dal Théâtre des Champs-Elysées con Jakub Józef Orlińsk, che ha ripreso il ruolo “creato” da Philippe Jaroussky). In entrambi i casi, Mozart e Gluck, ritroviamo lo stesso universo visivo, non proprio felicissimo. Le scene di Michael Levine tendenti a un nero cupo, peraltro, non aiutano. Lo spettacolo rinuncia, programmaticamente, a ogni elemento fantastico per spostarsi su un registro prosaico in cui i sogni lasciano il posto agli incubi. Rapidamente, ci si sente intrappolati e quasi soffocare.
Per fortuna, si dirà, c’è la musica. Purtroppo le ragioni commerciali di rappresentare questo repertorio a Bastille, anziché nel più contenuto Palais Garnier, hanno conseguenze artisticamente pesanti. È bravissimo il direttore Antonello Manacorda, al suoi debutto in questo teatro, a motivare la falange dell’orchestra dell’Opéra national de Paris. Il suo è un gesto sempre sicuro, netto. Le raffinatezze non mancano, specie tra i fiati. Però l’acustica non è certo dalla parte degli orchestrali, ahimè. Invece, il coro, sotto la direzione di Ching-Lin Wu, irrompe imponendosi sin dagli inizi: assolutamente impeccabile, preparatissimo, assicurando una massa vocale che conquista, sapendo peraltro perfettamente dosarsi con il resto.
Tra i solisti, l’attesissima prestazione di Pretty Yende fatalmente delude. Niente da dire, il soprano sudafricano ha una tecnica infallibile e un timbro ammaliante. Purtroppo, non si è (per il momento?) appropriata dello stile mozartiano: la sua aria «Ach ich fühl’s» non ha nulla di triste e non riesce a trasmettere emozioni, a eccezione di una indiscutibile ammirazione per le sue doti vocali. Non si può dire altrettanto di Caroline Wettergreen, una Regina della notte che ha gli acuti e sopracuti indispensabili, ma cui manca tutto il resto. Il Sarastro di René Pape è sempre imponente, occupando comunque la scena e magnetizzando il pubblico a dispetto di qualche grave che comincia a fare cilecca. Mauro Peter (Tamino) assolve al suo compito perfettamente (timbro scintillante, vocalità che non forza mai, agilità sempre sicura), così come la solare Tamara Bounazou (Papagena). Ma sicuramente il vero astro della sera è il giovane Papageno che ha dalla sua tutto per trionfare (e così è stato): Huw Montague Rendall è un genialissimo attore che diverte senza mai scivolare nella volgarità facile e che infiamma il pubblico grazie al suo spessore vocale. La sua è un’emissione da cantante liederistico, che controlla ogni dettaglio e che infila note, una dopo l’altra, come perle; la voce è sempre superba e vellutata, pur risultando corposa, tanto da imporsi pienamente nello spazio sterminato di Bastille. Una nuova stella è nata: al suo debutto all’Opéra national de Paris, il giovane baritono inglese va tenuto veramente d’occhio. E per terminare come non rendere omaggio alle tre giovanissime voci bianche?