Teatro esauritissimo per le tre recite di Tosca di Puccini proposta al Teatro Coccia di Novara in un nuovo allestimento firmato da Renato Bonajuto, con i costumi assai belli di Artemio Cabassi e un impianto scenico ben congegnato (di Danilo Coppola) che si avvale del contributo del pittore Giovanni Gasparro, artista che nelle sue tele dipinge soggetti sacri con uno stile neo-cavaraggesco, nel cui utilizzo della luce si ravvisa quel clima religioso oppressivo che ha suggerito a Bonajuto uno spettacolo che, pur nel segno di quella che ad apertura di sipario poteva sembrare la più scontata tradizione, in realtà si è rivelato illuminante nel dipingere una Roma papalina dove l’elemento religioso è vissuto nei fasti barocchi e pomposi, riflesso di un potere che opprime e condiziona l’ambiente con i suoi simboli, rendendo tutto forma più che sostanza spirituale. Lo si avverte fin dal primo atto, nella scena di Sant’Andrea della Valle, quando il Te Deum assume una dimensione a suo modo grandiosa nella processione di anziani ecclesiastici incartapecoriti, archetipi di una tradizione severa e rigida, imbevuta di vacua esteriorità o di superstiziose tradizioni pietistiche più che di reale senso del sacro, o prima ancora ritratta negli aspetti più meschini dal Sagrestano.
Questa atmosfera plumbea si respira soprattutto nel secondo atto, dove la gigantesca galleria di quadri di santi e martiri della Chiesa (sempre opera di Gasparro), utilizzati per lo studio di Scarpia a Palazzo Farnese, pare essere il respiro visivo di un clima poliziesco colorato di bigottismo così come sottilmente perverso, che utilizza l’elemento sacro facendo della religione la spettatrice immobile di una tragedia umana fatta di carne e passione più che di spirito. Più minimalista l’ultimo atto, con la cella di Cavaradossi la cui cancellata a grata si affaccia sulla gigantesca statua dell’Angelo che, prima in penombra e poi illuminata, sembra evocare il tragico epilogo con un senso di liberatoria catarsi tragica dinanzi allo svolgersi dei fatti. Ecco perché, a fronte di quanto detto, lo spettacolo e la meditata regia di Bonajuto mostrano quel profumo d’incenso mischiato alla sensualità, valore aggiunto tale da preservare questo nuovo allestimento da ogni scontata prevedibilità figurativa. Il tutto a riprova di quanto la tradizione, quando in mano a un regista che la conosce, riesca a comunicare valori che potenziano la drammaturgia dell’opera rispettandone i segni distintivi.
Sul versante musicale, Fabrizio Maria Carminati, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Italiana, del Coro San Gregorio Magno e del Coro di Voci bianche del Teatro Coccia, è la riprova dell’esperienza che questo direttore ha del grande repertorio dell’opera italiana. Il respiro melodico, la tensione emotiva, il fraseggio orchestrale accuratissimo nel dare corretto peso espressivo ai diversi climi dell’opera, da quelli più sinistri e tragici a quelli più appassionati, costituiscono quel laboratorio esperienziale che conferma in lui non solo la solida compattezza della resa musicale, ma anche quell’incalzante involo teatrale sempre garantito dalla sua bacchetta.
A fronte di una resa orchestrale così ben delineata, il cast vocale è nell’insieme efficace. Non fatica a emergere il Cavaradossi di Luciano Ganci, tenore all’“italiana” fra i migliori del momento. Per quanto inizialmente non sia apparso allo zenit della forma vocale, con lievi incertezze in qualche nota acuta (come quella un po’ “sporcata” de “la vita mi costasse”), si è comunque da subito ammirato lo schietto squillo tenorile e la volontà di curare il fraseggio con soluzioni espressive sempre intelligenti. La sua prova ha preso via via quota, fino a un magistrale ultimo atto, dove ha intonato un “E lucevan le stelle”, per altro acclamatissimo dal pubblico, trascinante per bellezza di timbro e proiezione sonora, oltre che attento a piegarsi alla mezza voce (qualità ripresentatasi subito dopo in “O dolci mani”), in saggio equilibrio fra sentimentalismo e appassionato trasporto, senza inutili languori.
Il soprano inglese Charlotte-Anne Shipley ha il physique du rôle giusto per essere Tosca e il suo curriculum artistico ci ricorda esser stata nientemeno che allieva di Renata Scotto e Montserrat Caballé. Si muove bene in scena, ha buona dizione e non canta affatto male, anzi possiede una voce solida, dal vibrato controllatissimo, ben espansa nell’ottava acuta. Nella fascia centrale la voce ha qualche zona d’ombra, non tale da impedirle una ottima resa complessiva. Ciò che le manca, ma questo è un problema non nuovo ogni qualvolta si vede Tosca in teatro, è la personalità tale da fare della protagonista una vera diva. Il rendimento è, nell’insieme, meritevole di attenzione, anche perché è stata più volte interprete di questa parte sulle scene e, quindi, ben la conosce. Eppure non si avverte quella marcia in più in grado, da un lato, di donare allo sfogo lirico del suo “Vissi d’arte” – comunque ben cantato – autentica emozione, dall’altro di garantire al personaggio quel trasporto passionale che nella giusta misura mostri fierezza e determinazione nell’incontro/scontro con Scarpia e sensualità amorosa nei duetti d’amore con Cavaradossi. Resta però l’impressione finale di una prestazione convincente. Peraltro, nel teatro d’opera non esistono solo numeri uno, ma anche serie professioniste come lei.
Interlocutoria la prova offerta da Francesco Landolfi, uno Scarpia impegnato nel tratteggiare il carattere insinuante e mellifluo del personaggio, se non fosse che la voce, per il vibrato accentuato, gli impedisce di realizzare le buone intenzioni di fondo.
Nei ruoli di contorno si mette in luce Stefano Marchisio nei doppi panni del Sagrestano e di Sciarrone. Soprattutto nel primo, oltre che per la voce chiara e ben proiettata, Marchisio sfoggia una padronanza del personaggio perfettamente colto nella divertita scioltezza con cui ne delinea l’indole pavida, valorizzandone la corda brillante senza mai cadere nel macchiettismo. Allo stesso modo efficacissimo è Saverio Pugliese, uno Spoletta viscido e sottilmente insinuante. Buona anche la prova di Graziano Dellavalle nei panni di Angelotti e Un carceriere.
Caloroso il successo finale per uno spettacolo che ha concluso felicemente la stagione d’opera del teatro novarese.
Teatro Coccia – Stagione 2022
TOSCA
Opera in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Tosca Charlotte-Anne Shipley
Cavaradossi Luciano Ganci
Scarpia Francesco Landolfi
Sagrestano/Sciarrone Stefano Marchisio
Angelotti/Un carceriere Graziano Dellavalle
Spoletta Saverio Pugliese
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Coro San Gregorio Magno
Maestro del coro Mauro Trombetta
Coro delle voci bianche del Teatro Coccia
Maestri del coro Paolo Beretta e Alberto Veggiotti
Regia Renato Bonajuto
Scene Giovanni Gasparro e Danilo Coppola
Costumi Artemio Cabassi
Luci Ivan Pastrovicchio
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia
ed Ente Luglio Musicale Trapanese
Novara, 27 maggio 2022