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Napoli, Teatro San Carlo – Samson et Dalila

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Allestimento bello e potente nel centrato mixage tra il forte impatto arcaico di rocce, sabbie, gesti e costumi in aggancio esatto con i fatti, i colori e i luoghi della storia tratta dall’Antico Testamento mentre, in filigrana visuale, luci modernissime e soluzioni colossal da grande schermo scansionano i fuochi della drammaturgia al rapido passaggio del tempo. Il tutto a scolpire e a incorniciare, fra i tanti applausi al Teatro San Carlo di Napoli, un Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns da ricordare, che brilla in primis per la superlativa prova del tenore americano Brian Jagde, alla sua prima volta nel ruolo di Samson.

La pregevole produzione scelta per riportare dopo vent’anni esatti il titolo al Lirico napoletano è quella della Staatsoper Unter den Linden di Berlino creata dal regista cinematografico argentino Damián Szifrón, nell’occasione ripresa da Romain Gilbert avvalendosi delle suggestive scene di Etienne Pluss che della Palestina ben restituisce valli e mura, nebbie, cieli e stelle, piazza, prigione e tempio, lasciandone a flash in bianconero e in fermo immagine il crollo sui filistei dei due pilastri sui quali poggia l’intero edificio sacro di Dagon. Speciale menzione anche per i bei costumi di Gesine Völlm e per le luci esemplari di Olaf Freese, qui riprodotte da Valerio Tiberi, accanto ai due diversi ma parimenti sensuali inserti coreografici firmati da Tomasz Kajdański all’incontro dei due amanti e per l’orgiastico Baccanale finale con figuranti in topless.

In premessa c’è da dire che il ritorno della terza e unica opera rimasta in piedi in cartello sulle tredici composte dall’autore Saint-Saëns, ormai di repertorio in Francia, senz’altro in linea con gli orizzonti culturali del sovrintendente Lissner ma non proprio all’ordine del giorno fra i palcoscenici d’Italia, ha una sua particolare ragione al Teatro San Carlo, rintracciabile nel vissuto delle sette edizioni precedenti. Le prime quattro, riprodotte in lingua italiana, furono rispettivamente dirette dai maestri Leopoldo Mugnone (1907), da Gino Marinuzzi (1924), da Edoardo Vitale (1933) e da Fritz Rieger (1955) con la Dalila di Ebe Stignani. Poi, in soluzione linguistica assai singolare, la versione bipolare diretta nell’aprile del 1959 da Francesco Molinari Pradelli (in francese per i soli due protagonisti e in italiano per tutti gli altri) che teneva a battesimo il superbo Samson del grande Mario Del Monaco, accanto al mezzosoprano americano – finalmente ideale per fisico e voce – Jean Madeira. Per la prima edizione interamente in francese si dovrà invece attendere il dicembre 1970, ancora con Del Monaco (stavolta accanto a Viorica Cortez) e la magnifica direzione di Georges Prêtre. Tra l’altro a seguire, l’unico precedente all’appello nel XXI secolo, non è stato proposto in forma scenica bensì semplicemente in concerto, con buona ma non memorabile resa da parte del cast, sotto la direzione di Yoram David. Ciò vale per comprendere ulteriormente il peso di una proposta giunta in coda della corrente stagione lirica ma distintasi in primo piano per la maggior quota dei suoi ingredienti. A partire dalla citata riuscita della produzione tedesca e dal notevole livello del cast.

In vetta si colloca, come accennato in apertura, il Samson spettacolare di Brian Jagde per la statura immensa garantita a ogni passo e nota del suo ruolo tanto sul fronte scenico quanto fra scavo e proiezione gestendo a meraviglia una voce bella e poderosa come il sole. Forte dei forti pur vinto dall’amore, Sansone è il personaggio che esce con la più alta perfezione canora e con la migliore sfaccettatura drammatica di un carattere che passa dai muscoli dell’eroe guerriero per il popolo ebraico, declamando con impeto vigoroso in sortita “Arrêtez, ô mes frères”, a tenero, poi focoso amante capace di tornire ora accenti di velluto, ora virili fiati e slanci da Heldentenor, culminanti nel saldo squillo di un si bemolle acuto oltre il quale s’intravede il climax e al contempo la sua rovina. Raggirato e in pieno atto erotico rapato senza troppe spiegazioni in libretto dall’infida filistea, ha infatti inizio la sua diversa esposizione timbrica ed espressiva, traditore della sua fede, accecato e appeso alla corda come un manzo nella prigione laddove intona dolente il suo canto con catene, soccombendo senza forze ai calci e alle violenze dei soldati e, nel finale, passivo alle vili carezze di una Dalila già quasi Salome straussiana. Al termine la sua ultima disperata, tuonante invocazione del ritorno alla forza leggendaria e la chiusura a taglio coronata da un meritatissimo trionfo di applausi.

Negli anni recenti divenuta interprete di riferimento del ruolo, il mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili garantisce nel complesso alla sua Dalila spessore e gran temperamento più che magnetismo sensuale, trovando i suoi accenti felici nella robustezza del range centrale mentre qualche sporadico segno di stanchezza si coglie sia nella cesellatura dei suoni al grave che nella traiettoria dei suoni più alti, per quanto con bravura risultino gestiti i volumi nelle zone al salto di registro. Ottimo infatti il patto di vendetta con il padre e l’intera scena in cui rimprovera e rincalza Samson all’atto secondo.
Di bel colore e salda fibra si rivela il Sommo sacerdote ritagliato con piglio stentoreo dal baritono Ernesto Petti, vigoroso e di intensa musicalità nelle tinte del lamento è il vecchio ebreo del basso Roberto Scandiuzzi, vibrante e relativamente spiccata nel suono la breve parte del basso Gabriele Sagona per il quasi subito assassinato Abimélech. Apprezzabile, inoltre, il contributo delle parti minori assegnate a Li Danyang (un messaggero), a Mario Thomas e a Sergio Valentino (due filistei).

A proprio agio nel governare tecnicamente la partitura, il direttore musicale della Fondazione Dan Ettinger ben gestisce la coesione d’assieme non solo fra buca e palcoscenico, ma tenendo testa a una scrittura che assomma in sé stili e linguaggi fra i più disparati. Gli innesti sono tanti e riconoscibili fra le tradizioni operistiche ottocentesche, sia italiana che francese e tedesca, in bilico fra l’impianto lirico e l’oratoriale ereditato dal primo progetto, fra l’antico gregoriano e l’esercizio contrappuntistico, tra l’altro mescolando il sinfonismo alla Berlioz, ridondanze alla Offenbach e interessanti intuizioni verso il dramma lirico moderno accanto a un esotismo in gran parte presente nel suo stesso catalogo precedente e futuro. In sintesi, più che il dettaglio di sfumatura, i momenti migliori sia sul podio che dalle compagini artistiche della Fondazione emergono dalla precisione delle sezioni in fugato e dalla forza sferzante delle dinamiche a effetto. Ottimo il lavoro svolto sul Coro dal maestro José Luis Basso sia pur con qualche iniziale disparità di volume fra le sezioni.
Al termine, grandi consensi per tutti.

Teatro San Carlo – Stagione 2021/22
SAMSON ET DALILA
Opera lirica in tre atti di Ferdinand Lemaire
Musica di Camille Saint-Saëns

Dalila Anita Rachvelishvili
Samson Brian Jagde
Il sommo sacerdote di Dagon Ernesto Petti
Abimelech Gabriele Sagona
Un vecchio ebreo Roberto Scandiuzzi
Un messaggero Li Danyang
Due filistei Mario Thomas, Sergio Valentino 

Orchestra e Coro del Teatro San Carlo
Direttore Dan Ettinger
Direttore del coro José Luis Basso
Regia Damián Szifròn
ripresa da Romain Gilbert
Scene Etienne Pluss
Costumi Gesine Völlm
Luci Olaf Freese
riprese da Valerio Tiberi
Coreografia Tomasz Kajdanski
Video Judith Selenko

Produzione Staatsoper Unter den Linden Berlin
Napoli, 29 settembre 2022 

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