Trilli, volatine e gorgheggi luminosi all’acuto, agili scale cromatiche e salti di registro, ribattuti e picchettati che sgorgano fluidi per svettare con naturale facilità di proiezione fra ardue intonazioni e patinature di velluto, fiati, accenti e sfumature, pienamente rispondendo per coloratura virtuosa e timbro all’ingenua vulnerabilità del personaggio. Ma, nell’attesa e applauditissima Lucia di Lammermoor del soprano statunitense con origini portoricane Nadine Sierra, per la prima volta attesa interprete del ruolo al Teatro San Carlo di Napoli nella romantica e alquanto cupa produzione registica di Gianni Amelio riproposta in terza battuta in dieci anni, non si riconosce quel necessario scavo tensivo del dramma, né le schegge allucinate di una mente sconnessa, che quell’alto magistero canoro di prodezze reca indissolubilmente e sin dal principio a nervi scoperti con sé. Vale a dire, quell’intero bagaglio analitico che qui, rispetto alle precedenti prove di Jessica Pratt nel 2012 e di Maria Grazia Schiavo nel 2017 nel medesimo allestimento, per non parlare dell’interpretazione miliare di Mariella Devia nel 2001 con l’edizione firmata Krief, non era facile a percepirsi fra gli esiti indubbiamente di smalto ma, complessivamente, bamboleggianti espressi perfino nell’apicale scena della pazzia, già di suo privata all’epoca (e così ripresa per la seconda volta da Michele Sorrentino Mangini) di veste candida, pugnale e sangue per una sorta di sospensione a posteriori a lutto, risolta cullando in ginocchio un velo stretto fra le braccia, come un bambino morto. Uno scavo drammatico che, in verità, latitava a partire dalla buca, sul cui podio, a dirigere Orchestra più Coro in scena, stavolta c’era Carlo Montanaro.
Si spiega così il grande successo “di superficie” di una Lucia che, pur accolta da consensi speciali per la Sierra e da generosi applausi per tutti, non lascia dietro di sé un particolare segno – qualche spettatore, in platea, ha parlato di prima “sottotono” – o una sua memorabile impronta nell’albo degli oltre sessanta allestimenti montati su quello stesso palcoscenico per il quale è nato il capolavoro del bergamasco Gaetano Donizetti, su libretto del napoletano Salvatore Cammarano dal romanzo storico di Scott, prendendo forma nel giro di appena quaranta giorni fra il 29 maggio e il 6 luglio 1835, allora come oggi sfidando il picco di un’epidemia (in quel caso di colera) e mille difficoltà da parte degli amministratori prossimi al fallimento della Società d’Industria e Belle Arti, risolte poi da Ferdinando II in persona, quindi debuttando la sera del 26 settembre di quell’anno.
Doti e bellezza della Sierra a parte, si segnalano dello spettacolo tre aspetti importanti. Innanzitutto la doverosa dedica di questa Lucia in memoria della meravigliosa prima arpa del Teatro San Carlo, Antonella Valenti, prematuramente scomparsa la scorsa settimana e punta di diamante preziosa come poche in organico tra le Fondazioni liriche italiane e non solo, in special modo per il capolavoro donizettiano e, in assoluto, presenza artistica rara per tecnica e sensibilità in ogni repertorio. E ancora, al pari dell’ultimo allestimento sancarliano diretto da Stefano Ranzani, meritevole ci è parsa la scelta di impiegare nuovamente la glassarmonica, lo strumento fatto di coppe di vetro che in origine Donizetti aveva previsto in partitura e in gara con la voce della protagonista per la scena della follia. La parte, presente infatti sul manoscritto autografo, era stata scritta per Domenico Pezzi che, pur avendola eseguita con l’orchestra durante le prove con la Tacchinardi Persiani, non fu presente alla prima per dissidi di natura economica con la Direzione del Teatro, lasciando di fatto, da allora in poi, al primo flauto i funambolici virtuosismi a richiamo e imitazione con la voce. Inutile dire che bravissimo si è rivelato nell’occasione Sascha Reckert, esecutore ormai di riferimento (con Philipp Marguerre) per il peculiare strumento a vetro. Infine, il debutto italiano del tenore polinesiano Pene Pati scelto per la parte che fu di Gilbert Duprez, primo interprete di Edgardo e voce di petto dell’eroe romantico per eccellenza. Al di là di un’impostazione tecnica da risistemare, non passano infatti inosservate le sue spiccate qualità di timbro, le mezzevoci, le modalità di attacco di accenti e suoni, in tanti punti fedeli, o comunque assai simili, al lascito canoro di Luciano Pavarotti.
Tornando all’allestimento creato esattamente dieci anni fa da Gianni Amelio nel rispetto del severo contesto inglese d’epoca elisabettiana, con scene di Nicola Rubertelli, costumi di Maurizio Millenotti e luci – assai poche, in realtà, tra le ombre – di Pasquale Mari, avremmo auspicato alla ripresa, qui come già nel 2017 curata da Michele Sorrentino Mangini, un rispolvero maggiormente plastico nella gestione delle masse e un affondo drammaturgico meno scontato nella sequenzialità dei gesti, degli spazi esterni/interni e dei punti di volta fra passato e presente, sogno, realtà e fato. Oltre al necessario lavoro sulla protagonista nella complessa articolazione della grande scena ed aria della pazzia, al di là delle scelte di base del cineasta Amelio che nulla fanno capire del fresco uxoricidio. Ne risulta uno spettacolo molto cupo e ormai già troppo vecchio.
La direzione di Carlo Montanaro, si diceva, neanche aiuta perché laddove necessiterebbe di far leva infilando con potenza le mani nelle fibre di un già esemplare dramma musicale ottocentesco, alleggerisce e scorre in velocità. O, viceversa, espande la scansione metrica spiattellando i difetti di un interprete precario qual è l’Arturo di Daniele Lettieri nel Larghetto della sua cavatina (“Per poco fra le tenebre”). E ciò penalizza, al di là dell’intervento discontinuo e con inciampo dell’arpa in apertura della cavatina di Lucia, la cabaletta del duetto (“Verranno a te sull’aure”) fra Lucia e Edgardo, il tempo d’attacco del successivo confronto con il fratello Enrico (“Il pallor funesto e orrendo”) e il Vivace della relativa cabaletta (“Se tradirmi tu potrai”), per di più in diffrazione metrica fra le due parti in gioco. D’altro canto, notevole è l’equilibrio fra palcoscenico e buca nel Sestetto con Coro germinato dal Quartetto (pur se spinta all’eccesso la stretta del Finale) e potente è l’affresco dell’uragano ad incipit dell’ultimo atto.
Impeccabili, invece, tutti gli interventi del Coro della Fondazione, calibrati dal maestro José Luis Basso con perizia tecnica e sapienza di stile tali da far comprendere il recente lavoro di crescita e assoluto rigore sulle migliori risorse tecnico-timbriche dell’organico.
Della Lucia di Nadine Sierra, oltre a quanto detto in apertura, si apprezza la genuina freschezza e la piena padronanza con cui gestisce sorridente qualunque sfida in pentagramma. Nel rapporto con l’amato Edgardo e con il prepotente fratello Enrico viene fuori con sentimenti spontanei mentre, per l’intera costruzione della scena della pazzia, sfodera un’ampia gamma di soluzioni lirico-pirotecniche purtroppo poco incernierate sull’essenza e sulla forza drammatica di parola e situazione. Ma, se non altro, sempre al riparo da un esercizio virtuoso fine a se stesso.
Pavarotteggiando o meno, ossia vantando effettivamente una buona quota di mezzi del celeberrimo modello tenorile, Pene Pati garantisce al suo istintivo eroe donizettiano voce chiara e autenticità di slancio, talvolta con qualche sfocatura di spessore ma distinguendosi per la non comune verità di tinta. Nella scena e aria finale (“Tombe degli avi miei”) pesa ad arte parole, silenzi e note per poi stemperare (e purtroppo sfibrare) quanto fin lì messo a segno cercando un più delicato lirismo nella cabaletta lenta (“Tu che a Dio spiegasti l’ali”) in chiusa d’opera.
Potente, arrogante e di solida statura canora è l’Enrico Asthon del baritono Gabriele Viviani mentre il Raimondo del basso Dario Russo presenta spesso, accanto alla buona profondità di registro, un uso eccessivo del vibrato e di emissioni chiuse. Completavano il cast il Normanno di Carlo Bosi, l’Alisa di Tonia Langella e, per il breve cammeo coreografico in stile rinascimentale disegnato da Stéphane Fournial, dieci solisti del Corpo di Ballo del Teatro San Carlo.
Teatro San Carlo – Stagione 2021/22
LUCIA DI LAMMERMOOR
Dramma tragico in tre atti
Libretto di Salvadore Cammarano,
dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton Gabriele Viviani
Lucia di Lammermoor Nadine Sierra
Sir Edgardo di Ravenswood Pene Pati
Lord Arturo Bucklaw Daniele Lettieri
Raimondo Bidebent Dario Russo
Alisa Tonia Langella
Normanno Carlo Bosi
Orchestra, Coro e Coro e Balletto del Teatro di San Carlo
Direttore Carlo Montanaro
Direttore del coro José Luis Basso
Direttore del balletto Clotilde Vayer
Regia Gianni Amelio
Regista per la ripresa Michele Sorrentino Mangini
Assistente alla regia Luca De Lorenzo
Coreografia Stéphane Fournial
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Maurizio Millenotti
Assistente ai costumi Concetta Nappi
Luci Pasquale Mari
Produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 18 gennaio 2022