Un Don Bartolo dottore tronfio e buffo di folgorante qualità, un Almaviva non solo di grazia ma tenore dalla cantabilità piena e vibrante, latina purosangue si direbbe, un Figaro di scuola nobile con qualche spinta eroica più che in rango da commedia, un Don Basilio ben sonoro ma un po’ tetro. E, soprattutto, una Rosina soprano anziché mezzo con il pallino del belcanto acrobatico, da primadonna seria o siderale regina donizettiana, pronta a sfidare – ovunque le sia possibile – tessitura, stile e contesto, ruolo e pentagrammi. Libretto compreso che, stando al retaggio settecentesco dell’improvvisazione ben raccolto e riformulato dall’antiromantico compositore, porta il barbiere a riferire che l’amata dal padrone ha capello non nero ma biondo (come quello dell’interprete), per poi lanciarsi nella finta lezione di musica non con la canonica aria del Pesarese dall’opera novella L’Inutil precauzione (Contro un cor che accende amore), o con le consuete varianti in uso, bensì piroettando al sovracuto con l’aria di baule più pirotecnica e mitteleuropea che possa scegliersi: il funambolico Tema e variazioni “Deh, torna, mio bene” del viennese Heinrich Proch.
Sembrerebbe il remix metateatrale di uno dei più celebri e amati sistemi dei personaggi del comico in musica del primo Ottocento e, invece, è questa la ricetta del cast di vaglia quanto dall’insolita miscela proposto con Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini tornato al Teatro San Carlo di Napoli nel rodato allestimento creato nel 1999 per la stessa Fondazione dal regista Filippo Crivelli, scomparso lo scorso febbraio a 93 anni e dunque nell’occasione rimontato con pari carica gestuale da Luca Baracchini, delizioso nelle scene tra fiaba cartonata e azulejos del parimenti indimenticabile Lele Luzzati più i costumi di bella tradizione di Santuzza Calì.
Dunque, contenitore noto, delizioso assai al netto dell’esplosione fiorita e un po’ pacchiana nel finale ultimo e, pertanto, sostanzialmente prevedibile. E invece no. Perché, a movimentarne le dinamiche, non poche sono state le sorprese, a partire dalle peculiari risorse interne alla squadra di canto e da una direzione musicale che guida l’opera a redini sempre perfettamente serrate e tese. Fino a talune vivaci invenzioni come la chitarra veramente suonata in scena da Figaro accompagnando, in un travolgente ritmo di fandango, la Canzone del Conte “Se il mio nome saper voi bramate”.
Alla luce di un simil quadro appare subito chiaro che il cardine e il collante dell’intera esecuzione vadano ricercati sul podio. Ed è infatti lì che il maestro bresciano Riccardo Frizza, artista ospite dei maggiori teatri al mondo, interprete oggi tra i più interessanti per l’Ottocento operistico italiano (sarà lui a dirigere l’Anna Bolena di Donizetti in locandina nel giugno 2023 al San Carlo) e da tre mesi Direttore Principale dell’Orchestra Sinfonica e del Coro della Radio Ungherese, restituisce un Rossini che ha l’esatto battito del comico teatrale. Risoluto nei ritmi, veloce e coeso nelle dinamiche, sottilmente tellurico e puntuale nella costruzione dei fondamentali crescendo, sensibile nei colori, saldo e assai discreto nel sostegno al canto sia negli effetti a rimbalzo strumentale, sia negli scorci d’ampio respiro. E anche laddove l’Orchestra non lo segue troppo nel lavoro di dettaglio – esclusi i violini ben acuminati e velocissimi guidati dalla spalla Gabriele Pieranunzi, percussioni e nacchere (Franco Cardaropoli) di perfezione assoluta – se ne apprezza ancor di più la tenuta ferrea dell’assieme, in special modo lungo i tracciati non sempre in linea per stile e tradizione con il contesto.
In primo piano sfila, con la sua prova straordinaria su doppio fronte scenico e canoro, il basso ormai veterano del ruolo Carlo Lepore, Don Bartolo buffo e nobile al contempo, potente nella gamma degli accenti, sempre esatto nelle tirate espressive come nella proiezione a ogni sfumatura di suono, fra borbottii e interiezioni, gelosie e proteste. A lui infatti, oltre che al direttore Frizza, sono andati al termine gli applausi più convinti di un teatro finalmente pieno fra palchi e platea.
Di notevole interesse è in verità anche l’Almaviva del giovanissimo tenore di San Sebastián già lodato nel gala a tre voci per Caruso e, al pari del direttore, anche lui ancora a Napoli fra un anno per la Bolena. Si tratta di Xabier Anduaga, bel talento musicale di appena ventisette anni che, con timbro chiaro ma virile, centra a meraviglia la cifra rossiniana di grazia (in minor misura la coloratura, che nell’Allegro tende a piallare) unendovi al contempo, sia pur con qualche eccesso nell’apertura di alcuni suoni e nella spinta di talune sillabe o seconde note in legatura, morbidezza d’attacco, di linea e di espansione. Conferisce in tal modo temperatura e sostanza mediterranea a un ruolo generalmente sempre un po’ pallido se non caprino (e spesso con aria tagliata in chiusa) distillando con diverso tiro la sua generosa cantabilità tanto nella Serenata d’esordio quanto nella seducente Canzone con Figaro, nelle strepitose scene di travestimento per poi salire definitivamente di quota nella per nulla facile aria finale “Cessa di più resistere”, maggiormente governata nel suono e nelle fiorettature.
Tecnica, stile, volume e attenzione per la parola poetica sfodera quindi il Figaro del baritono Davide Luciano, per abito e gesto simile a un bravo manzoniano, stentoreo e asciutto nella sua celeberrima cavatina “Largo al factotum”, persino eroico nello slancio del duetto “All’idea di quel metallo”. Per colore e precisione metrica si rivela presto fondamentale per tutti i suoi interventi al grave negli assieme come per lo scavo nei passaggi in recitativo.
Un discorso a parte va fatto invece per la belcantista doc Jessica Pratt che punta a portare in scena e a casa una Rosina iperfiorita veramente a sé, per nulla civettuola ma astratta e astrale per tessitura e rarefazione dei suoni, staticità gestuale e carattere, per scelte di stile ed espressioni lontane anni luce dal tessuto connettivo dell’opera, pur nell’ottica dell’improvvisazione. La sua cavatina vince senz’altro per l’inaudito fuoco d’artificio di note, trilli e volatine ma perde sostanza in zona medio-grave e smalto in non poche puntature all’acuto. Singolare appare anche la scelta per la lezione del Tema e variazioni di Proch, uniche dieci pagine rimaste dell’autore in repertorio. Scelta coraggiosa senz’altro e prodigiosa per tecnica senza rete, tanto da guadagnarsi le prevedibili ovazioni di rito. Ma, anche qua, troppo fuori contesto, legata a un cliché da concerto salottiero di pieno Ottocento, pur se variazioni presenti nel solco di una tradizione canora e rossiniana che va dalla Luisa Tetrazzini a Toti Dal Monte, da Elvira de Hidalgo alla Callas, dalla Gruberova alla Pratt.
Infine il Don Basilio del basso non troppo buffo Riccardo Fassi scolpisce la sua calunnia con bel timbro e spessore per quanto al riparo da quel giro di vite maligno e insinuante che dà ragione stessa al crescendo e al cannone. Brava, non solo per l’infinità di starnuti, la Berta del soprano Daniela Cappiello che, con sapienza, intona e colora la sua unica aria di sorbetto sull’amore senile. Efficaci, al termine, il Fiorello di Clemente Antonio Daliotti, l’ufficiale del corista Giuseppe Scarico, l’Ambrogio teatralissimo e ipercinetico del mimo Armando De Ceccon, il notaro di Salvatore Totaro. Coro maschile puntuale istruito con grande sensibilità e rigore da José Luis Basso.
Teatro San Carlo – Stagione 2021/22
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Conte d’Almaviva Xabier Anduaga
Rosina Jessica Pratt
Don Bartolo Carlo Lepore
Figaro Davide Luciano
Don Basilio Riccardo Fassi
Berta Daniela Cappiello
Fiorello Clemente Antonio Daliotti
Ambrogio Armando De Ceccon
Un notaio Salvatore Totaro
Orchestra e Coro del Teatro San Carlo
Direttore Riccardo Frizza
Direttore del coro José Luis Basso
Regia Filippo Crivelli
ripresa da Luca Baracchini
Scene Emanuele Luzzati
Costumi Santuzza Calì
Luci Valerio Tiberi
Produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 6 luglio 2022