Riserva ben più di una sorpresa, al di là della prevedibile super Elvira varata e tagliata a punta di diamante dalla belcantista pura Lisette Oropesa, al suo duplice esordio nel ruolo e sul palco del Teatro San Carlo di Napoli fra gli sperticati entusiasmi del pubblico, l’esecuzione sia pur in forma di concerto dei Puritani di Vincenzo Bellini, titolo in stagione per la lirica dopo la pausa d’estate fra tanti applausi ma in una sala piena solo a metà.
Non pochi infatti i punti di merito e forza che hanno tenuto insieme ad alto fuoco drammatico-musicale tre ore e oltre di spettacolo sia pur in assenza del comunque in origine previsto supporto scenico. E forse per questo, se non in misura maggiore, spettacolo concentratissimo nella gestualità canora di tutti gli artisti in campo, nonché in special modo pertinente dal podio per la palpabile restituzione descrittiva e in pari analitica di situazioni e ingranaggi dalla modernità sorprendente, belli e godibili in logica mentale più che reale così come comanda l’ultimo capolavoro belliniano scritto con tanto di insolito lieto finale su libretto del conte Carlo Pepoli dal dramma storico Têtes rondes et Cavaliers di Ancelot e Boniface sotto la protezione del buon Gioachino Rossini, quindi tenuto a battesimo con esito trionfale il 24 gennaio 1835 al parigino Théâtre des Italien. Il tutto, con il valore aggiunto di un’edizione critica a cura di Fabrizio Della Seta che salva i tre numeri generalmente tagliati al I (il cantabile del terzetto) e al III atto (il cantabile del duetto fra Arturo ed Evira, la stretta del finale ultimo).
A dirigere l’Orchestra e il Coro della Fondazione lirica napoletana stavolta è il quarantenne Giacomo Sagripanti, bel talento musicale italiano incline a stringere e a galvanizzare significanti e significati in partitura. Dunque, traducendo al meglio in chiave narrativa o lirico espressiva ogni sia pur minimo dettaglio tecnico, ossia curvando metri, ritmi, modi, suoni, dinamiche e accenti secondo quell’inedito pittoresco in Bellini di volta in volta puntato sui mirabili scorci della natura, della mente e del cuore, fra squilli guerrieri, afflato ieratico e baldanza coreutica, attraversandone i segni in affondo eroico o sentimentale che sia, ma pur sempre cercandone il senso o, ancor meglio, la plasticità e la sincera emozione. Dote non comune, in verità, che in concreto affiora nello scontorno di scene e vocalità, assecondando come da scrittura le linee morbide delle lunghe arcate melodiche, vivacizzando le ritmiche a sbalzo, garantendo spazio e respiro persino ai più arditi passaggi di coloratura, valorizzando il gioco fra gli spazi sonori interni, laterali ed esterni, gettando luce sapiente sui moderni innesti fra aria e assieme isolando come in primo piano il ruolo di punta mentre, alla base, dosa le redini ritmiche e armoniche delle altre voci.
Ne consegue un’articolazione eloquente a partire dall’efficace narrazione strumentale per l’alba in apertura, attraversata dal bel tema dei corni e, a seguire, innestata sulla fiamma patriottica italianissima dei richiami guerreschi o, lungo la matrice dei quadri sonori dedicati alle forme popolari di danza, la spiccata autenticità della canzone a ballo, dei ritmi di tarantella e di polacca. L’Orchestra sancarliana risponde in ogni sezione con dovizia alle intenzioni e al gesto di Sagripanti ma a sfoderare piena coesione e gran presa è il Coro preparato, come meglio non si potrebbe sperare, dal maestro José Luis Basso. Le sortite marziali al maschile, in particolare, ostentano bel timbro e compattezza assoluta; quelle miste, scansione esatta e buona fattura. Il che rende ancor più mesta la recente notizia della sua uscita dal San Carlo per proseguire in analogo incarico al Teatro Real di Madrid, a partire dall’anno 2023 e comunque portando a termine tutti gli impegni presi per la prossima stagione con il Lirico napoletano.
Quanto ai solisti per I puritani, è noto, servono quattro protagonisti di primo calibro e simil vaglia stando alla scrittura disegnata per le ugole d’oro dei primi interpreti: Giulia Grisi per Elvira, il tenore dall’arsenale tecnico inarrivabile Giovanni Battista Rubini per Arturo, il celebre basso Luigi Lablache per l’amorevole zio paterno Giorgio e il non meno spettacolare basso “cantante” Antonio Tamburini per il ruolo dell’antagonista Riccardo, poi ceduto alla corda baritonale. Ebbene un bel poker di voci, per nomi e curriculum, di fatto in campo c’era, sia per il contributo solistico quanto per le situazioni con coro e in assieme.
In primo piano, come è giusto che sia, svetta l’Elvira cantata per la prima volta dal soprano di coloratura nata nel delta del Jazz, Lisette Oropesa. Forte di un’emissione infallibile quanto a intensità e intonazione, velocità e precisione lungo l’intera estensione, l’Oropesa fa del vibrato l’essenza stessa del suo canto, letteralmente metabolizzando melodia e tecnica per trasformare in luminosissimi fili dai suoni di perla ogni sorta di asperità in zona acuta e sovracuta. La sua Elvira, con ben quattro cambi d’abito da concerto e una credibilità gestuale prossima alla versione scenica, vola facile e ad altissima quota solcando trilli, scale, salti, arpeggi e quant’altro con una naturalezza e una bellezza di pasta rari. Ma non è solo bravura in pentagramma. Sin dalla sortita in scena accanto al paterno zio Giorgio Valton, ben si comprende quanto il personaggio creato per la Grisi e ricucito sulla Malibran per una non più realizzata première partenopea, sia perfettamente nelle corde e tra le sfide già vinte del suo repertorio per verità di accenti, per l’estrema fluidità dei passaggi, la luminosità densa e levigatissima delle puntature stellari.
E se la sua polacca “Son vergin vezzosa” intonata in abito bianco al Finale I si rivela presto una vera delizia per connotazione ritmica, trillature in ogni dove e salti all’apice dell’estensione mai aspri o lanciati al caso, non meno folgorante risulta la sua scena e aria della demenza o pazzia per amore (“Qui la voce sua soave”) fitta di esposizioni espressive fra slanci, estasi, mutamenti e pause. Fino a brillare in un sublime Si bemolle al platino e nell’Allegro, dopo il fuoco delle ripide discese cromatiche, in un poderoso Mi bemolle sovracuto.
Non meno significativo è l’Arturo messo a segno con una quantità e qualità di voce impressionante dal tenore spagnolo Xabier Anduaga. Cavaliere e partigiano degli Stuart, dà forma e tinta all’eroe del primo Ottocento letterario per antonomasia tracciando archi melodici immensi per potenza, dolcezza, sfumature a contrasto, aperture (finanche eccessive) e legati. Il suo Lord Arturo Talbo, in verità, s’impone per sangue e dinamiche canore decisamente mediterranee con cui, tra l’altro, affronta e centra tutti i bersagli più arditi del ruolo: dal lunghissimo Do diesis della Cavatina “A te, o cara” al potente Do di petto nel Finale I e al Re bemolle, sempre a voce piena, nel magnifico concertato finale (“Credeasi misera”).
Di gran temperamento anche la prova del baritono campano Davide Luciano nei panni non facili del colonnello puritano sir Riccardo Forth, antagonista di Arturo ma complice per convenienza amorosa. Dunque non propriamente “un villain”, per dirla con il professore Della Seta, bensì “un innamorato frustrato” che agisce di conseguenza. Sta invece a Luciano, in virtù di una non comune levatura interpretativa coniata nel solco del basso-cantante, riuscire a sfaccettarne la forza e i sentimenti, accentuandone le pieghe dolenti nella scansione delle biscrome quasi sospesa nella sua atipica Cavatina (“Ah, per sempre io ti perdei”) e nobiltà di fraseggio nella Cabaletta “Bel sogno beato”. Di bel vigore stentoreo è quindi il suo apporto al celebre duetto patriottico strappa applausi “Suoni la tromba” scritto per i due bassi, al fianco del colonnello puritano in ritiro Giorgio, da Bellini posposto alla scena di follia e giocato in chiusura dell’Atto II.
Su un mezzo canoro ampio e sonoro, oltre che assai duttile per le diverse istanze narrative ed espressive, può contare il Giorgio – già quasi Germont – del basso Gianluca Buratto, bravo, solido e intenso. Decisamente apprezzabile per colore e tempra anche il Gualtiero Valton di Nicolò Donini, nella norma il Sir Bruno Roberton di Saverio Fiore, interessante per stile e tinta, pur necessitando di un maggior volume, l’Enrichetta di Francia del mezzosoprano Chiara Tirotta.
Applausi a scena aperta per tutti e speciale trionfo per il ruolo tenuto a battesimo, unitamente al suo esordio al San Carlo, dalla stella Oropesa.
Teatro San Carlo di Napoli – Stagione 2021/22
I PURITANI
Opera seria in tre atti
Libretto di Carlo Pepoli
Dal dramma storico Têtes rondes et Cavaliers
di Jacques-François Ancelot e Joseph Xavier Boniface
Musica di Vincenzo Bellini
Edizione critica a cura di Fabrizio Della Seta
Elvira Valton Lisette Oropesa
Lord Arturo Talbo Xabier Anduaga
Sir Riccardo Forth Davide Luciano
Sir Giorgio Valton Gianluca Buratto
Lord Gualtiero Valton Nicolò Donini
Sir Bruno Roberton Saverio Fiore
Enrichetta di Francia Chiara Tirotta
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del coro José Luis Basso
Esecuzione in forma di concerto
Napoli, 7 settembre 2022