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Napoli, Teatro San Carlo – Evgenij Onegin

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Il fresco giardino di betulle, pioppi e tigli della tenuta estiva dei Larin, con il folto manto erboso di campagna che arriva a lambire il bordo del proscenio e fin quasi le teste degli orchestrali in buca, al centro un’ampia zolla mobile, una giostra di semplici sedie in legno per la festa di compleanno con torta e il cantore in parodia francese Triquet. Mentre, per il ricevimento nella neoclassica dimora del principe Gremin al penultimo quadro dell’opera, spunta giusto qualche elemento architettonico di lusso salottiero, presto smontato a vista per tornare nel bosco. Ma nulla di più. Niente camera da letto per la scena della lettera, niente interno da ballo nella casa di Tat’jana per il valzer della gelosia né duello a vista, oltre agli studiatissimi movimenti dei singoli come delle masse e a un uso assolutamente mirabile delle luci che rivelano, nascondono e concentrano fino a regalare apici superbi nella scena delle fiaccole a fuoco vero o filtrando in vapori la vera pioggia al riscatto finale. Il tutto a emblema e sigillo di uno spazio che deve e vuole innanzitutto essere un luogo universale dell’anima. Di anime diverse e distanti quanto, al termine, parimenti stanche per gli affetti mancati e i tanti sogni spezzati. Anime disincantate e in vario modo infelici, secondo il mal d’être ormai comune all’Europa tardoromantica come alla Russia riformata e di pace sotto lo scettro di Alessandro II Romanov che fa da sfondo alla genesi dell’opera, fra gli anni 1877-1878.

Unico quanto di raro impatto, dunque, è il grande quadro-contenitore congegnato per far agire e scorrere in soluzione quasi cinematografica le vite con i debiti salti temporali e le scene liriche in tre atti dell’Evgenij Onegin di Čajkovskij, titolo tornato con pieno successo, per quanto a sala non piena, al Teatro San Carlo di Napoli nel bellissimo allestimento creato nel 2016 per la Komische Oper Berlin da Barrie Kosky, con le scene di Rebecca Ringst, i costumi di Klaus Bruns e con le luci di Frank Evin, nell’occasione riprese da Dino Strucken. Inoltre, cast di voci importanti e direzione d’élite con Fabio Luisi sul podio di Orchestra e Coro – preparato a dovere da José Luis Basso – della Fondazione.
Una regia drammaturgicamente moderna ma, sul fronte visivo, dalle vivide suggestioni d’epoca. Vale a dire, perfettamente in grado di riallacciare e restituire al meglio, con naturalezza estrema, i fili di una realtà dei sentimenti valida per ogni tempo e le storie di un’alta fonte letteraria russa (l’omonimo romanzo in versi di Puškin, tradotto in libretto dallo stesso Čajkovskij con l’aiuto del fratello Modest e dell’attore Šilovskij) radicata nel vissuto dell’autore che morrà nel 1837 esattamente come il suo immaginario poeta Lenskij. Ossia, per le ferite riportate durante la sfida a duello per gelosia contro il barone francese Georges d’Anthès, audace corteggiatore della sua affascinante ma leggera moglie Natal’ja Gončarova, con tanto di pettegolezzi nei salotti della Pietroburgo coeva.
Legando a fil doppio scavo psicanalitico e taglio socio-culturale, dall’impianto scenico-registico emergono e si lodano senz’altro il semplice fascio di luce che isola i turbamenti notturni della colta e ipersensibile Tat’jana, la scena della lettera scritta a pancia sotto sul prato perché non è la cornice di una stanza che conta, il tormento rivelato dalle mani in posizione di spalle che ritorna, con lo stesso fuoco, al tardivo incontro dell’amato quando la fanciulla rifiutata è ormai donna sposata e d’alto rango. Quindi osservandola come in sospensione, costantemente staccata dal resto, perché Tat’jana è una “strana” creatura. Non solo sognante, ma troppo vera e sincera. E, per giunta, di grande dignità. L’estraneità della gente comune (il Coro) fa di conseguenza gruppo sempre coeso e a sé stante, attraverso una gestualità che è rito e superficie di convenienza, ben viva e presente sullo sfondo degli altri ritratti: la madre resta figura ferma nel suo ruolo genitoriale, la vecchia balia risalta attraverso il peculiare conio comico-ironico, frivola e allegra Ol’ga pensa solo a ballare, amare e a rotolarsi nell’erba, il poeticissimo Lenskij canta con pari slancio tanto l’amore quanto il suo presagio di morte. E poi c’è il bello e impossibile Onegin che, al pari del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte, ostenta la sua condotta libertina e sfuggente, narcisista e immaturo ma alla fine anch’egli dissoluto punito, incapace di amare e infatti attratto da ciò che non può avere. Quanto al duello, Barrie Kosky ricorre a un paio di bottiglie in mano e allo stordimento dell’alcol per rendere palpabile l’assurda inconsapevolezza attraverso cui i due fraterni amici arrivano a sfidarsi e a uccidere, per presunta gelosia, il migliore dei due.

Visione, quella di Kosky, pertinente in toto e singolare che trova nell’occasione della prima napoletana un sorprendente accordo con la rilettura musicale operata da Fabio Luisi, al termine ripagato dalla maggior quota di applausi del pubblico. E ciò perché il maestro dal podio rintraccia e concilia le fila di una strumentazione spiccatamente europea internamente a una scrittura di salda matrice russa per cultura, dinamiche e colori, valorizzandone di volta in volta e con diversa cura i ritmi di danza fra valzer, mazurca, polonaise e scozzese, gli affondi drammatici, gli spunti di genuinità popolare, le linee cantabili di varia estrazione, italiana, russa o francese che sia. Ma sempre tendendo ad asciugare e a raffinare in una visione classica e decisamente novecentesca le opulenze romantiche che infiammano in genere, talvolta fin oltre il dovuto, la vocazione invece propensa al naturale dei pentagrammi di Čajkovskij. L’Orchestra del San Carlo ne coglie nella fluida leggerezza complessivamente il senso ma, esclusi taluni rilievi solistici di pregio considerevole, tende a esaudire solo parzialmente l’idea del direttore, portando a casa alla fine un’esecuzione corretta ma talvolta monocorde nella ripetizione dei motivi e, comunque, mai realmente folgorante.
Ne risulta un Evgenij Onegin dal respiro musicale di delicata eleganza, spesso lineare eppure in non pochi tratti già quasi straussiano, estatico e sospeso. Persino rarefatto lungo i profili d’accompagnamento al canto della protagonista femminile Tat’jana che, cogliendo appieno una tale percezione avanzata di stile, tanto si accosta alle sublimi vertigini dei Vier letzte Lieder ma, anche, alla lama canora di quella Salome con cui l’interprete qui sfoggiata in cast, è bene ricordarlo, ha magnificamente e in concreto debuttato in Italia nel febbraio 2021, via streaming nella produzione firmata Michieletto per la Scala a porte chiuse.

Praticamente annunciato il successo del cast. Dal suo esordio e per vent’anni attivo in un ruolo che dopo il palcoscenico napoletano avrebbe intenzione ormai di lasciare, il baritono polacco Artur Ruciński restituisce un Onegin di timbro scuro, dagli immensi fiati e di ferrea solidità vocale lungo l’intera tessitura – giusto un’isolata stimbratura all’acuto nel duetto finale – ben garantendone scenicamente l’atteggiamento disinvolto del cinico amante seriale, sfilato da coinvolgimenti affettivi, e la capricciosa implorazione al rifiuto della donna in chiusura d’opera.
All’apice della compagnia, per la grandezza degli esiti dal vivo al suo reale esordio italiano con pubblico in sala, c’è la Tat’jana di puro smalto del soprano russo Elena Stikhina, in primo piano già dal quartetto d’apertura, accanto alla sorella dietro le quinte, sfoderando una proiezione portentosa, morbida e sonora in ogni grado e dinamica, dolcemente melodiosa, calibratissima lungo l’intero spettro di volumi ed espressioni. La sua scena della lettera – in pieno prato laddove le sue richieste alla balia di aprire la finestra e di avere carta più penna cadono nel vuoto, ma poco importa – non si lancia in particolari sfaccettature o espansioni drammatiche quanto, piuttosto, indugia negli incanti adolescenziali di una dolce ma temuta illusione. Fino a toccare le velature di un sogno estatico e ingenuo nello sguardo, come nei ripensamenti e nei gesti ma, soprattutto, nelle impalpabili tinte di un canto trasfigurato in voce interiore, nella confessione di un amore innocente, così come semplice e crepuscolare è il sostegno che Luisi le garantisce in orchestra. Girata di spalle è parimenti intensa fin nei sussurri che a fior di labbra, e al richiamo del bravo corno solista, volano verso le vette degli ultimi Lieder di Richard Strauss. Qui, per lei, esplode il primo grande scroscio di applausi a scena aperta, rinnovati ancora al duetto finale.
A ricevere ampi consensi è anche il tenore americano Michael Fabiano, Lenskij romantico e vibrante, che oltre all’ampia espansione canora, assicura verità di sentimento sia all’arioso del primo atto, sia al suo drammatico addio alla vita. In efficace antitesi con la sorella di celeste vestita, la spensierata Ol’ga in abito rosa trova nella piena sicurezza vocale e scenica del mezzosoprano georgiano Nino Surguladze un’esatta definizione timbrica e di carattere. Ottima anche la prova di una Larina di lusso affidata com’era al mezzosoprano Monica Bacelli, assolutamente funzionale alla vocalità comico-grottesca della balia Filipp’evna il contributo del mezzosoprano russo Larissa Diadkova, intenso il principe Gremin del basso Alexander Tsymbalyuk con il suo inno all’amor coniugale, di giusto stile il Triquet di Roberto Covatta. A complemento, centrate le prove di Rosario Natale per il secondo di Onegin al duello, Zareckij, e di Antonio De Lisio (un comandante) mentre una speciale nota di merito spetta al magnifico lavoro svolto da José Luis Basso sia in termini di scatto ritmico che nella gamma dei colori sull’organico in formazione mista del Coro della Fondazione.

Teatro San Carlo – Stagione 2021/22
EVGENIJ ONEGIN
Scene liriche in tre atti
Libretto del compositore e Konstantin Šilovskij
dall’omonimo romanzo di Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij

Larina Monica Bacelli
Tat’jana Elena Stikhina
Ol’ga Nino Surguladze
Filipp’evna Larissa Diadkova
Evgenij Onegin Artur Ruciński
Vladimir Lenskij Michael Fabiano
Principe Gremin Alexander Tsymbalyuk
Zareckij Rosario Natale
Triquet Roberto Covatta
Un comandante Antonio De Lisio

Orchestra e Coro del Teatro San Carlo
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro José Luis Basso
Regia Barrie Kosky
Assistente alla regia Werner Sauer
Scene Rebecca Ringst
Costumi Klaus Bruns
Luci Frank Evin
riprese da Dino Strucken
Allestimento Komische Oper Berlin 

Napoli, 15 giugno 2022

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