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Napoli, Teatro San Carlo – Don Carlo

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Sbuca all’improvviso da una botola del pavimento a scacchiera come giullare di corte richiamando d’impatto, agli occhi e alla mente, El bufón di Velásquez. Poi, munito di ali, arco e perizoma, svolazza qua e là intorno ai protagonisti, come un putto-cupido barbuto contrappuntando la psiche e l’esistenza turbata dell’irrisolto Don Carlo, infante di Spagna ipersensibile e per questo “demente”. E lo fa con la sua minuta statura in costante metamorfosi di spirito e foggia, animando e smussando, ma anche distraendo e non poco dal fuoco sul canto, le oltre quattro ore dell’assai cupo Don Carlo di Giuseppe Verdi versione Modena (in cinque atti ma senza balli, del 1886) così come griffato per regia inedita e d’autore dal tedesco Claus Guth, al suo in gran parte bocciato esordio partenopeo. Allestimento con le scene di Etienne Pluss, i costumi di Petra Reinhardt, le luci di Olaf Freese, i video di Roland Horvath e con la drammaturgia di Yvonne Gebauer scelto e proposto per l’apertura poi slittata (come noto per lutto deciso a poche ore dalla tragica frana di Ischia) della nuova stagione del Teatro San Carlo di Napoli. Dunque inaugurando non più il 26 ma il 29 novembre e sollevando, in via amplificata con la diretta-differita su Rai5, un social polverone di critiche e polemiche andate dritte a demolire con pollice verso il contenitore registico-scenico. In verità, non l’unica causa di un’impresa senz’altro ambiziosa ma dalle incongruenze molteplici.

Tornando allo spunto portante del mimo: ora volteggia in abito da sposa, ora appare come un “munaciello” in tonaca nera da Santa Inquisizione o dama velata a lutto, quasi sempre spargendo coriandoli e petali, fino a ostentare fra le altre azioni scettro e corona come un piccolo re balzato all’indietro sullo scrittoio del sovrano Filippo II, laddove il figlio Carlo percorre un mondo opposto e diverso, perso com’è fra le nebbie dei propri sogni border. Infatti, in tale occasione, per lo più in terra in posizione fetale o mani strette alle tempie. In partitura, come nel libretto del tandem Méry-Du Locle e, tantomeno nella fonte del dramma schilleriano, il ruolo creato ad hoc per il bravissimo mimo formato mignon Fabiàn Augusto Gomez, tenero, ironico e dall’agilità sorprendente, ovviamente non c’è. Così come, dato più grave tirando la linea dei conti, è Verdi stesso che non c’è e non si sente fra gli ingranaggi dell’architettura complessa innanzitutto per lo studiato ma algido taglio teutonico condiviso fra drammaturgia e podio. Più, in quota parziale con la sola eccezione del trionfante baritono Ludovic Tézier accanto al mezzosoprano Elīna Garanča, per lo stile dai ceppi più disparati delle voci messe insieme in parata stellare, pur dalle prove magnifiche e difatti meritatamente applauditissime.

Cominciamo, per flash, dal contenitore. Il taglio del regista Claus Guth, come da impianto tematico dell’opera, affonda il bisturi con intenti psico-filosofici fra i tessuti tematici in antitesi del trono e dell’altare entro il duro scontro dei poteri in terra di Stato e Chiesa, fra libertà e monarchia ossia dittatura, fra padre e figlio con contorno di amore, amicizia, tradimento e morte. Ne salta fuori un calderone di elementi ed epoche a base storica dai non pochi spunti di genio che, però, mal si accordano e peggio funzionano in scena. A parte l’attacco prolettico con l’incappucciato dell’Inquisizione che piega e sovrasta Carlo nel fascio di luce e fumo di notevolissimo effetto dal vivo, il reintegrato primo atto nella Foresta di Fontainebleau (come da versione di Modena che ha intanto il merito di recuperare in coda all’atto secondo il duetto tra il re e il marchese di Posa scritto per Napoli nel 1872) si trasforma nel bosco notturno delle Villi, con tanto di spose velate e ferme come pedine al centro della scacchiera in luogo del doppio coro di cacciatori, poi popolo, stipato dietro le quinte. Onnipresente è invece il dipinto del Goya con la famiglia (a mo’ di chiodo siculo) del re di Spagna Carlo VI. Vestita già da sposa (immagine che tornerà più volte in dissolvenza video) è infatti Elisabetta, in sortita accanto al suo paggio en travesti e pronta per una promessa del cuore tradotta in matrimonio da Sogno d’una notte di mezza estate mendelssohniano tanto nelle immagini quanto per la leggera punteggiatura musicale in buca. Il tutto, mentre il Cupido Gomez provvede alla pioggia di petali. A spezzare l’incanto ci pensa il Conte di Lerma destinando Elisabetta al re Filippo II e, con lui, il lugubre seguito capitanato da un manipolo di medici della peste dalle mani di forbice che ne tirano via il destino. Nell’atto secondo il chiostro del Convento di San Giusto è risolto con l’innesto fra gli alberi e la scacchiera di un coro ligneo lungo il cui perimetro siedono i coristi incappucciati (più avanti canteranno lì dietro incassati) e, in pari luogo, avviene il patto di unione e libertà fra gli amici d’infanzia Carlo e Rodrigo marchese di Posa, siglato dalle immagini decisamente trite di un video simil super8 (replicato, con varianti, ben tre volte) con i due fanciulli che giocano a fare gli eroi con tanto di spade in legno. Per la Canzone del velo, tornano naturalmente le Villi immobili.

Stesso contesto, ma con cinque bassi lampadari di cristallo in luogo degli alberi per i giardini della regina e la piazza davanti alla Cattedrale di Valladolid per l’atto terzo, con chiusa sull’autodafé degli eretici dinanzi a un tribunale dell’Inquisizione che, per praticità drammaturgica, cambia il libretto e fa tagliare agli incappucciati “del torchio” la gola dei sei malcapitati deputati della delegazione fiamminga, anziché allontanarli semplicemente e uccidere invece i prigionieri delle Fiandre che difatti neanche si vedono. Viceversa la voce dal Cielo prende forma eccome, di Madonna. Idem, giusto con l’aggiunta di uno scrittoio e di una dormeuse in ferro per il gabinetto del re e il carcere al quarto atto mentre, per il quinto, torna la stanza vuota con finestrino in alto a destra vista nell’incipit. A liaison degli ultimi tre atti, il dipinto di cui sopra della famiglia reale ma sempre più scuro, da al termine Carlo gettato in terra e preso a calci. Sarà quel quadro nero e a testa in giù a fungere da tomba del nonno Carlo V e da voragine entro cui avverrà la fantasiosa sparizione verdiana dell’Infante di Spagna, praticamente citando Don Giovanni. Dall’intervista al regista raccolta da Yvonne Gebauer per il programma di sala d’altra parte si apprende che “Don Carlo è il fulcro dello spettacolo” e che, attraversando una sorta di chiuso “labirinto kafkiano”, visto e vissuto attraverso la fragilità del protagonista, l’opera effettivamente “comunica depressione al più alto grado”.

Non diversa, in effetti, la disamina del sempre assai rigoroso direttore musicale in uscita Juraj Valčuha che, della partitura, ben esalta la modernità formale e il variegato spettro di sfumature sia espressive che di colore, conferendo solidità e tensione metrica all’intero impalcato. Il problema è che mai cerca né trova l’affondo nella densità specifica dello stile verdiano, gravido di suono, di per sé teatralissimo e autenticamente italiano, negli appoggi del fraseggio, nel peso e nelle aperture degli accenti, nella profondità di segno. L’Orchestra sancarliana ne traduce in maniera ligia il gesto, lo scatto ritmico, il duttile sostegno al canto, i bei crescendo tuonanti. Ma, per bellezza e intensità, resta in vetta e nel ricordo solo il bellissimo canto del primo violoncello Michele Chiapperino, in apertura d’atto IV. Per quanto mortificato in scena, il Coro maschile e misto interviene con efficacia e precisione, in virtù dell’ormai riconosciuto e impagabile apporto del maestro José Luis Basso.

Da valutare con attenzione infine quanto messo a segno dai singoli interpreti del cast, tutti di prima sfera ma, quanto a centrature dello stile, dalle linee differenti, sia per background di partenza che nei traguardi. Il tenore americano Matthew Polenzani sfoggia ad esempio per il ruolo del titolo tinta chiara e una propensione lirico-leggera che lo porta a raffinare e a tradurre in belcanto tutto ciò che intona. Il che si rivela ideale per il primo Ottocento e per i ruoli dell’opéra-lyrique nel solco del grande Kraus, molto meno per il Verdi del Don Carlo in versione italiana, qui da lui toccato per la prima volta. A ogni buon conto il suo impegno nel dar voce e forma a un Infante fragile e diverso, sognatore e anche a suo modo eroe, è spinto al massimo e in progressivo crescendo, passando dal leggero vibrato dell’aria “Io la vidi e al suo sorriso” alle vive accensioni romantiche giocate al meglio negli scontri con l’amico Rodrigo e con il padre nemico, sempre curando come pochi il dosaggio dei fiati, cercando l’arabesco nelle linee e l’eleganza delle mezzevoci.
Viceversa cifra verdiana piena e potente presenta il marchese di Posa del baritono Ludovic Tézier, Rodrigo di statura immensa, generoso per volume e tempra, giusto con qualche copertura di suono in taluni passaggi di registro. Pilastro portante nell’atto secondo sia nel duetto con Carlo alla scena terza (le due voci risultano quasi reciprocamente impermeabili tanta la distanza di stile), sia nel serrato confronto in chiusa con Filippo II, per poi virare all’apice con l’aria “Io morrò, ma lieto in core”, serrata alla parola come al sentimento di sacrificio per l’amico di una vita. Dizione attenta e controllo assoluto di una voce temprata anche in tal caso sul repertorio del Belcanto presenta quindi il Filippo II del basso Michele Pertusi che nella fermezza della proiezione scolpisce magistralmente la forza ostinata del monarca assoluto e del padre ostinato, così come in apertura dell’atto IV, amara e dolente è la presa di coscienza della sua solitudine in una mirabile “Ella giammai m’amò”, leggermente opacizzata in coda. Parimenti rigoroso e non dissimile per tempra – di qui il relativamente vibrante duetto del consiglio fra i due – è il Grande Inquisitore del basso Alexander Tsymbalyuk, a pieno agio nel gestire anche i suoni più gravi e temibili.
Qualcosa di analogo riguarda le due principali voci femminili in campo, di diverso registro ma di fibra rotonda e scura il soprano, di plasticità luminosa il mezzosoprano. Ailyn Perez, al suo esordio nel ruolo di Elisabetta di Valois, ha relativo argento nel colore ma la felicità e facilità del suo canto conquistano per la dolcissima sensibilità melodica, per la bellezza dei filati, per l’intensità garantita all’infelicità del personaggio. Ad attestarlo, sia l’abilità nel girare il fraseggio dell’aria “Non pianger, mia compagna”, sia la dolente drammaticità scolpita fra l’intonazione in recitativo e le sublimi sfumature all’acuto nell’aria finale “Tu che le vanità”. A condividere il trionfo con Tézier c’è infine la Principessa Eboli di Elīna Garanča, piglio scenico superbo, tanta sensualità nella voce come nel gesto, un dominio dell’estensione impressionante pur con qualche segno di affaticamento iniziale. Non ha la ridondanza dei mezzosoprani verdiani ma la forza di tinte e accenti con cui scontorna la Canzone del velo (molto alla Carmen) e l’apice toccato con “Oh don fatale” ne fanno uno dei punti fermi di questo Don Carlo napoletano.
Completano il cast Cassandre Berthon, paggio Tebaldo piuttosto sregolato nell’emissione come nella dizione, Giorgi Manoshvili (Un frate), Luigi Strazzullo (Il conte di Lerma), Massimo Sirigu (Un araldo reale), Maria Sardaryan (Una voce dal cielo), Takaki Kurihara (Primo Deputato), Lorenzo Mazzucchelli (Secondo Deputato), Giuseppe Todisco (Terzo Deputato), Ignas Melnikas (Quarto Deputato), Giovanni Impagliazzo (Quinto Deputato), Rocco Cavalluzzi (Sesto Deputato).

Teatro San Carlo – Inaugurazione stagione 2022/23
DON CARLO
Opera in cinque atti
Libretto di Joseph Méry e Camille du Locle
tratto dal dramma Don Karlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller
Musica di Giuseppe Verdi

Filippo II Michele Pertusi
Don Carlo Matthew Polenzani
Rodrigo marchese Ludovic Tézier
Il grande inquisitore Alexander Tsymbalyuk
Un frate Giorgi Manoshvili
Elisabetta di Valois Ailyn Perez
La principessa Eboli Elīna Garanča
Tebaldo Cassandre Berthon
Il conte di Lerma Luigi Strazzullo
Un araldo reale Massimo Sirigu
Una voce dal cielo Maria Sardaryan*
Primo Deputato Takaki Kurihara
Secondo Deputato Lorenzo Mazzucchelli
Terzo Deputato Giuseppe Todisco
Quarto Deputato Ignas Melnikas*
Quinto Deputato Giovanni Impagliazzo*
Sesto Deputato Rocco Cavalluzzi
Il giullare (attore) Fabián Augusto Gómez

* Allievo dell’Accademia di canto lirico del Teatro di San Carlo

Orchestra e Coro del Teatro San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Direttore del coro José Luis Basso
Regia Claus Guth
Scene Etienne Pluss
Costumi Petra Reinhardt
Luci Olaf Freese
Video Roland Horvath
Drammaturgia Yvonne Gebauer

Nuova produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 1 dicembre 2022 

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