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Napoli, Teatro San Carlo – Aida (cast alternativo)

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Un’Aida senza trionfo in marcia e al netto di sfarzi faraonici o di imponenti sfilate egizie. Fortemente icastica, piuttosto, e nuda nella sua statica semplicità scultorea che traduce in potente astrazione documentaria tanto quell’antica storia – probabilmente vera – scovata fra i papiri dall’arguto egittologo Mariette quanto, accorciando al Novecento le distanze, il segno prestato all’opera di un’arte contemporanea fine anni Settanta di valenza ideografica tale da risultare neanche troppo diversa dalla funzione d’impatto di un segno geroglifico.

È quanto portato in scena al Teatro San Carlo di Napoli proponendo, per il terzo appuntamento lirico in stagione e in omaggio ai 150 anni dalla prima rappresentazione assoluta al Cairo, il terzultimo capolavoro di Giuseppe Verdi nella storica edizione della Fenice di Venezia firmata nel 1978 da Mauro Bolognini per la regia (qui, e come altrove in precedenza, nella puntuale ripresa di Bepi Morassi), dall’artista contemporaneo Mario Ceroli per le scene e con gli assai peculiari costumi, messi a disposizione dall’Archivio Storico della Fondazione Cerratelli di Pisa, creati da Aldo Buti, talentuoso allievo di Toti Scialoja, poi attivo e apprezzato per tanti altri allestimenti della modernità.

Dunque, a oltre quarant’anni, un’edizione datata. Senz’altro. Ma ancora nuova per la piazza napoletana e soprattutto, se presa a visione lontana con la sua forza cromatica e prospettica divisa a due piani tra l’irta gradinata solare dei vincitori e lo scuro sotto-mondo dei vinti, ancora oggi assolutamente valida per dirottare la ridondante allure da grand-opéra di quel che Verdi indicava come ”l’affare d’Egitto” messo in piedi fra lo scenario dello straordinario Auguste Mariette, il testo di Camille Du Locle e la definitiva versificazione del librettista Antonio Ghislanzoni, verso quell’invece raffinatissimo lavoro di cesello che il compositore coagula e consegna fra le mille sfumature dinamiche di una partitura fatta di scontri e affondi per lo più personali, di delicate screziature intimistiche, di rarefatte suggestioni sonore e atmosferiche. Prima ancora che di paranze politiche e rituali.
Va da sé che, tolto il dettaglio decisamente agée di taluni abiti di scena, tra guardie color fango con natiche al vento, prosperose odalische in costume a due pezzi anni Settanta, moretti adulti che danzano come i selvaggi delle settecentesche Indes galantes in stile opéra-ballet, più coro di sacerdoti fisso e bardato come l’esercito di terracotta di Xi’an (guarda caso scoperto appena quattro anni prima dell’allestimento lagunare), lo spettacolo funziona, anche in virtù degli efficaci stacchi ed effetti di luce di Fabio Barettin ripresi da Andrea Benetello. Intorno, costanti le danze, semplici, lente e geometriche, funzionalmente aggiornate secondo il disegno coreografico di Giovanni Di Cicco (avremmo evitato giusto il distraente doppio coreutico dalla presa in posa acrobatica, al termine delle ultimissime note su per le scale) e ottimamente eseguite dagli artisti del Corpo di Ballo della Fondazione.

In chiaro aggancio con un simile taglio prospettico-analitico, la direzione musicale affidata nell’occasione all’italo-polacco Michelangelo Mazza (di pari scuderia della coppia Netrebko-Eyvazov per tre recite in primo cast) ha inteso esaltare dell’opera faraonica per antonomasia le pieghe più sensibili e diafane, assottigliandone gli spessori, dilatandone come in sospensione talvolta i tempi, isolandone i timbri puri, rilevandone i temi in controcanto, lavorando a lama sugli equilibri interni ed esterni al palcoscenico. Forte d’altra parte di un’ampia esperienza sull’intero catalogo operistico verdiano maturata sia in qualità di primo violino del Teatro Regio di Parma, sia sul podio fra teatri e progetti discografici, il maestro ha dunque ritagliato fra l’attacco in pianissimo, quasi impercettibile del Preludio iniziale e il quadruplo piano con cui Aida e Radamès schiudono uniti dopo tre ore di musica le proprie esistenze al cielo sul rassegnato sugello di pace troppo tardi invocato da Amneris, un’Aida fonicamente quasi da camera. Intima e a tratti impalpabile, tanto da udirsi poco se non a stento nei momenti nei quali la ricerca sottile di pesi e colori è risultata spinta all’estremo. Pensiamo ai suoni filiformi del Preludio e al pur bello ma troppo trasparente velo strumentale di sostegno al Coro nella scena della consacrazione in apertura del Finale I (Immenso Fthà), al sostanziale predominio delle voci nella spinta di metà dell’azione, all’accademismo sfiorato nell’intero pannello intorno alla troppo statica marcia trionfale nel Finale II o all’attacco, sentitosi praticamente soltanto in buca, dell’Atto IV. Ciò rilevato, notevole è stata nel complesso la cura di una condotta orchestrale sempre calibrata nel rispetto di accenti e respiri a supporto di danze, situazioni e voci, accurata nel singolo ritratto e, in particolare, stringente nei pezzi d’assieme, in via crescente pregnante nella scansione delle scene e dunque, alla luce dell’economia generale, decisamente convincente per piglio, tensione e metro al giro di vite impresso a partire dagli ultimi due atti dell’opera. In Orchestra si segnala la significativa prestazione di ottoni e percussioni, la precisione delle trombe egizie in scena, dei violini nei passaggi a punta d’arco, il bel colore delle viole e la cantabilità del sempre speciale primo oboe.

Pari ricerca di sfumature, ma sulla base di un’intesa più solida garantita lungo la traccia di una recente, vistosa crescita della compagine dovuta al fondamentale apporto del maestro José Luis Basso, il Coro del Teatro San Carlo ha pur nella non facile dilatazione di tinte e tempi tenuto testa per intonazione e coesione alle diverse esposizioni, interne, esterne, militari o religiose che fossero. A punta di diamante, intanto, già il solo stacco in doppio accento “Guerra, guerra” della sezione maschile. Il tutto, con qualche equilibrio ancora da limare nella timbrica femminile come da canto delle sacerdotesse d’introduzione al terzo Atto curiosamente derivato, pare, dal richiamo (Boiènt i pèr cott, boiènt) di un peracottaio parmigiano, udito e prontamente catturato in pentagramma sul proprio taccuino da Verdi.

Diciamo che, a riservare le migliori soprese, è stato il fronte canoro messo a segno dal secondo, compatto cast che vedeva, rispetto all’esito scontato della prima (a noi negata) terna di superstar, un duplice, significativo debutto a Napoli portando per le prima volta sulle assi del San Carlo un magnifico soprano lirico drammatico verdiano, ossia l’ucraina Liudmyla Monastyrska nel ruolo del titolo e, con esito ancor più verdiano, il mezzosoprano polacco Agnieszka Rehlis, passata presto in testa alla graduatoria di qualità con la sua rara, importante Amneris.
Notevolissima voce per il repertorio in campo, robusta per tecnica e fluida per espansioni e legati la prima, scelta in sostituzione dell’inizialmente prevista Anna Pirozzi e ben pronta a restituire in Aida tanto la fierezza della principessa etiope quanto, al contempo, l’accorato sentimento della schiava innamorata. Potente nel dire come nel canto al cospetto della rivale Amneris, imperiosa nella scena “Ritorna vincitor”, di intenso lirismo – se si escludono talune prese di fiato leggermente scoperte, qualche vibrato eccessivo e alcune asprezze all’acuto – nel Cantabile con espressione “Numi pietà”. All’apice della sua prova si collocano la Romanza al terzo Atto (O cieli azzurri) e il grande fuoco garantito ai duetti ritagliati a seguire con il padre Amonasro e Radamès, culminando nel finale fra luminosi filati.
La seconda interprete si staglia per la morbida densità della pasta timbrica, una levigata capacità di espansione e una personalità ancora più netta, garantendo scatto ritmico, vigore drammatico e bellissimo suono, come si diceva, verdiano agli acuti agguerriti e nei punti nodali dell’azione, dal duetto del primo Atto “Forse l’arcano amore” alla viva opposizione con la rivale Aida (Fu la sorte dell’armi), dalla brusca potenza sfoderata in apertura dell’Atto IV (L’aborrita rivale a me sfuggìa) alla pregnanza del duetto con Radamès “Già i sacerdoti adunansi”.

Al loro fianco, sempre in secondo cast, il tenore Stefano La Colla garantisce giovanile ardore e pieni accenti a un Radamès dall’emissione ampia, di timbro piuttosto chiaro e quasi da Belcanto donizettiano ma ben spinto, più che per fibra, attraverso la natura musicale degli appoggi, la forza degli attacchi, i portamenti disegnati e legati pur con un certo gusto di maniera in salda sede centrale. Fino a squillare in acuti espansi e luminosi, presi per lo più d’assalto, quindi smorzati e poi tenuti quasi all’infinito. Il suo esordio in recitativo (Se quel guerrier io fossi!) ne rivela subito la quota di voce e di temperamento, volgendo presto la parola in espressione cantante lungo le diverse linee dinamiche interne alla romanza “Celeste Aida”, infiammandone con vivo entusiasmo i salti al si bemolle acuto. Anche per lui, prova in crescendo con esiti di gran pregio nei duetti con le rispettive due donne.
La comprovata esperienza e valenza del baritono Franco Vassallo aggiunge poi ulteriore lustro drammatico al sistema dei personaggi grazie alla forza conferita nei suoi interventi in recitativo e alla ricchezza di bronzei armonici nel canto. Infine meritevoli le interpretazioni dei bassi, il che vale dunque per la calda espressione del Ramfis di Nicolas Testé e per lo stentoreo Re d’Egitto, padre di Amneris, di Mattia Denti. A complemento, la sacerdotessa di Desirée Migliaccio che con melos sinuoso tornisce gli arabeschi modali alla scena dell’invocazione e l’ottimo messaggero di Riccardo Rados.
Teatro gremito e tanti gli applausi.

Teatro San Carlo – Stagione 2021/22
AIDA
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi

Il Re Mattia Denti
Amneris Agnieszka Rehlis
Aida Liudmyla Monastyrska
Radamès Stefano La Colla
Ramfis Nicola Testé
Amonasro Franco Vassallo
Sacerdotessa Désirée Migliaccio
Messaggero Riccardo Rados

Orchestra, Coro e Balletto del Teatro San Carlo
Direttore Michelangelo Mazza
Maestro del coro José Luis Basso
Regia Mauro Bolognini ripresa da Bepi Morassi
Scene Mario Ceroli
Costumi Aldo Buti
Luci Fabio Barettin
riprese da Andrea Benetello
Coreografo Giovanni di Cicco
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Costumi dell’Archivio Storico della Fondazione Cerratelli

Napoli, 20 febbraio 2022

Photo copertina: Aliaksei Zuyeu

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