Durante la Sinfonia d’apertura si assiste a un grande andare e venire. Si è nel backstage di un teatro e il poeta Prosdocimo siede al suo tavolino pensando all’ossatura del dramma ancora in embrione, del cui contenuto si ha già traccia nel video in bianco e nero (ben confezionato da Gabriel Grinda e Julien Soulier) mostrato a Donna Fiorilla e Don Geronio, protagonisti di un incubo matrimoniale. In esso si osserva il menage in crisi dei due coniugi: lui pensa solo più a mangiare, ma quando la moglie gli presenta provocatoriamente sul piatto una pietanza – che fra un fumo e l’altro del coperchio appena tolto si rivela formata null’altro che da tre piselli e una riga di salsa per intingerli – ecco scattar il bisticcio; Geronio protesta, lei lo addita per essere troppo “rotondo” e volano piatti, discussioni a non finire e addirittura il lancio di un coltello. Questo è dunque l’inizio, originalissimo, del nuovo allestimento de Il turco in Italia di Rossini con il quale prosegue alla Salle Garnier la stagione dell’Opéra di Monte-Carlo. Lo spettacolo, firmato da Jean-Louis Grinda, riporta sulla scene monegasche l’opera dagli anni in cui, sotto la passata gestione di John Mordler, venne affidata alle cure registiche di Pier Luigi Pizzi. Oggi la nuova messa in scena segna anche la prima collaborazione sul palcoscenico fra Grinda e Cecilia Bartoli: lui direttore del teatro monegasco da un quindicennio oltre che affermato regista, lei diva che dal prossimo anno gli succederà alla guida del teatro stesso e regala sempre sorprese e magia. Gli ingredienti messi in essere dallo spettacolo funzionano e contribuiscono, nel loro insieme, a creare una bellissima serata di musica e teatro, accolta da applausi trionfali, con i cantanti che ripetono sulla passerella davanti al pubblico il motivo finale dell’opera (come è in uso fare quando si eseguono le operette) e la diva Bartoli che lancia una a una al pubblico rose attingendole dal mazzo donatole da un ammiratore.
Ma torniamo allo spettacolo di Grinda, che è un piccolo capolavoro di teatro e ironia. L’impianto scenico è per lo più fisso (le scene sono di Rudy Sabounghi), formato dal dietro palco di un teatro con sipari che creano i diversi ambienti utili al poeta a osservare le scenette di vita familiare fra Fiorilla e il pingue marito Geronio, la volubilità fresca e capricciosa di lei e il fascino del turco Selim, che arriva su una barca ondeggiante su un mare fatto di tessuti blu e seduce tutte le donne che incontra, da Fiorilla alla sua vecchia fiamma, la bella zingara Zaida, con la quale al termine dell’opera ritorna al proprio paese lasciando Fiorilla, pentita e desiderosa di essere perdonata dal marito. Questo meccanismo teatrale perfetto viene gestito da Grinda con finissima teatralità, in un gioco che richiede e ottiene dai cantanti grande attorialità in quadri visivi immersi in atmosfere notturne e morbide (Laurent Castaingt firma le bellissime luci), talvolta illuminate dalle tenui lampadine del dietro palco, mentre una passerella che attraversa il boccascena davanti alla buca dell’orchestra permette ai cantanti di lasciare il palco per avvicinarsi al pubblico in sala. Pochi sipari servono ad ambientare le diverse scene: da quello che raffigura gli interni della casa di Geronio e Fiorilla per l’incontro fra la donna e Selim sotto gli occhi dell’attonito marito che si vede l’amante della moglie sorseggiare il caffè sul divanetto di casa, a quello che, nella mascherata del secondo atto, mostra il Vesuvio eruttante lava affacciato sul mare, fino ad esplodere nel momento di maggior concitazione del concertato. La regia è accuratissima, con momenti geniali, come il cinematografico fermo immagine per la lite fra Zaida e Fiorilla sul finire del primo atto, quando le due donne vengono alle mani. Il resto lo fanno i costumi di Jorge Jara, davvero magnifici, come quello ottocentesco, sofisticatissimo, color fucsia e giallo, che vede Fiorilla entrare in scena da vera diva, con un ombrellino e stivali neri per intonare “Non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto” ammirando un album di vecchie fotografie che, aprendosi a fisarmonica, mostra uomini atletici in pose sexy; album che poi finisce nelle mani stesse di Geronio. La regia di Grinda comprende alla perfezione che in un’opera metateatrale come questa il linguaggio registico debba favorire il gioco di incastri drammaturgici senza perdersi per strada in inutili intellettualismi, facendo scattare l’anima giocosa di un percorso narrativo comico ed insieme raffinato, al termine dell’opera anche toccato, nella grande aria di Fiorilla, dalla corda patetica. È il gioco della vita, delle incostanze amorose che finiscono col metterci tutti in balia di sentimenti che regolano i rapporti. Il sorriso ironico sostiene la regia in perfetta simbiosi con la parte musicale e vocale.
La direzione di Gianluca Capuano, alla testa de Les Musiciens du Prince-Monaco, impiega al meglio le tante risorse di questa orchestra formata da strumenti storicamente informati. Ogni strumento sembra “parlare” in senso drammaturgico e il fortepiano interagisce in continuazione con l’orchestra creando atmosfere e climi espressivi, abbandonandosi a tempi sostenuti da una ritmica scatenata che il suono pulito ma un po’ “arcaico” degli strumenti trasmette anche nelle oasi liriche o nei momenti in cui le effusioni amorose permettono ai cantanti di giocare sull’ammicco, su quella patina seduttiva che l’orchestra ben asseconda. Il fortepiano si abbandona a citazioni alla musica turchesca mozartiana (evidenti gli accenni all’ouverture del Ratto dal serraglio o alla marcia turca), addirittura al motivo dell’inno nazionale monegasco, quando volendo omaggiare il Principato si mette in bocca a Geronio, sulle parole del libretto “il gemmato turbante di Selim Damelec”, un gioco di rime fuori copione (“Damelic, Dameluc, Demonac”). Il suono così si drammatizza, prende parte al gioco scenico e lo veste di note galvanizzando il tutto.
I cantanti recitano tutti meravigliosamente. Cecilia Bartoli è una Fiorilla di splendida presa teatrale, per il continuo gioco di occhiate, sorrisetti, abbondoni sensuali che contribuiscono a creare l’immagine della prima donna buffa a tutto tondo. I recitativi sono un capolavoro di espressività e basta sentire come intona le parole rivolte a Selim, quando gli offre il caffè domandandogli se “Il zucchero è bastante?” mentre Selim è già ebbro d’amore, per comprendere come a un’artista del suo calibro basti la giusta intonazione data a un recitativo per creare il personaggio. Peraltro mostra di essere assai brava anche in un canto che pare un ricamo fatto di note e parole, di gesti e movimenti che rendono la sua prova originale e mai scontata. Le agilità sono fluide e minute, i trilli e le fioriture croccanti, il coté lirico fascinoso, come nell’arioso “No mia vita, mio tesoro” del duetto con Geronio, come nell’aria “Squallida veste, e bruna”, che diviene uno squarcio di patetismo ripiegato, fatto di note sussurrate con poetica dolcezza. Nella successiva cabaletta, abbreviata perché privata del da capo, non si assiste a un virtuosismo fine a se stesso, come spesso capita. È come se Cecilia Bartoli non volesse perdere per strada le ragioni del personaggio, ecco perché l’aria non diventa un banco di prova belcantistico che blocca l’azione, bensì l’approdo di un arco emotivo che vede Fiorilla passare, grazie al fraseggio miniato, dalla più vanesia frivolezza alla consapevolezza di aver sbagliato nei confronti del marito Geronio, qui un magnifico Nicola Alaimo, che recita anche lui da grande attore e canta da par suo. Il suo non è il solito marito tradito borbottone, talvolta anche acido, bensì un uomo capace di un’umanità che si riverbera nel muoversi sulla scena sempre in punta di penna, utilizzando addirittura ad arte una stazza monumentale che lo rende, per ossimoro, agile e simpaticamente bonario, con una voce che scalda note e sillabati rendendoli carichi di anima teatrale. Il Selim del basso rumeno Adrian Sâmpetrean, che ha rimpiazzato il previsto Ildar Abdrazakov, si inserisce pure lui assai bene all’interno di uno spettacolo che lo vede imporsi per la fascinosa presenza scenica, se non per la voce di bell’impasto timbrico ma con un canto di agilità da “buffo nobile” talvolta un po’ timido e appannato. Così vale anche per i due tenori, dal Don Narciso stilisticamente ragguardevole di Barry Banks, che trasforma la sua aria del secondo atto in un sipario di teatro e bello stile espressivo più che di efficace rendimento vocale, all’Albazar volenteroso di Filippo Adami, giunto all’ultimo a rimpiazzare un collega malato. Al Prosdocimo del giovane Giovanni Romeo si può riconoscere un buon gioco scenico, se non una quadratura vocale ancora perfettibile. Il cerchio del cast si chiude al meglio con la bella Zaida di Josè Maria Lo Monaco, femminile e teneramente garbata nel gesto, così come in un canto morbido ed elegante. Del successo trionfale si è detto, meritatissimo.
Salle Garnier, Opéra di Monte Carlo – Stagione 2020/21
IL TURCO IN ITALIA
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica Gioachino Rossini
Donna Fiorilla Cecilia Bartoli
Zaida Josè Maria Lo Monaco
Don Narciso Barry Banks
Albazar Filippo Adami
Selim Adrian Sâmpetrean
Don Geronio Nicola Alaimo
Prosdocimo Giovanni Romeo
Les Musiciens du Prince-Monaco
Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo
Direttore Gianluca Capuano
Direttore del coro Stefano Visconti
Regia Jean-Louis Grinda
Scene Rudy Sabounghi
Costumi Jorge Jara
Luci Laurent Castaingt
Video Gabriel Grinda e Julien Soulier
Studi musicali David Zobel
Assistente alla messa in scena Enza D’Auria
Assistente ai costumi Uta Baatz
Nuovo allestimento
Salle Garnier di Monte-Carlo, 21 gennaio 2022