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Monte-Carlo, Grimaldi Forum – La damnation de Faust

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L’anno in corso ha visto il Principato di Monaco celebrare il centenario della morte di Alberto I di Monaco, il Principe della dinastia Grimaldi amante delle arti e delle scienze naturali. A questo monarca illuminato si deve la creazione del monumentale Museo Oceanografico di Monaco ma anche la chiamata, alla direzione dell’Opéra di Monte-Carlo, di Raoul Gunsbourg, singolare figura di impresario, compositore e regista rumeno di origine ebraiche che guidò per oltre cinquant’anni questa istituzione e la fece divenire, nel periodo della Belle Époque, uno dei teatri più importanti al mondo.
In questi giorni Jean-Louis Grinda, direttore uscente del teatro monegasco in attesa dell’arrivo di Cecilia Bartoli, che lo guiderà a partire dal gennaio del prossimo anno, ha voluto rendere omaggio alla figura di Gunsbourg con una bellissima mostra allestita al Grimaldi Forum, attraverso la quale gli è stato reso onore illustrando tutti i principali traguardi artistici raggiunti, a partire dalla visionaria idea avuta, fin dalla prima stagione da lui firmata nel 1893, di mettere in scena un titolo non nato per il palcoscenico come fu La damnation de Faust, voluto originariamente da Hector Berlioz solo per le sale da concerto ma che il 18 febbraio 1893, quando il compositore era già passato a miglior vita, venne proposta per la prima volta all’Opéra di Monte-Carlo nella versione scenica che, grazie a Gunsbourg, diede ulteriore impulso alla fama di questa légende dramatique.

Un nuovo allestimento di quest’opera, in scena nella grande Salle des Princes al Grimaldi Forum per celebrare questo evento in occasione anche della Festa Nazionale Monegasca, si rivela come una delle più felici realizzazioni scenico-registiche curate da Grinda nei quindici anni che l’hanno visto alla guida del teatro monegasco, non solo come direttore ma anche come regista. Con l’avvallo del suo consueto team, che vede schierati in prima lista, per le scenografie, Rudy Sabounghi e, per i costumi, davvero accurati, Jorge Jara, realizza uno spettacolo memorabile. Lo è perché Grinda comprende benissimo un aspetto non sempre rispettato e condiviso da chi negli ultimi anni ha messo in scena quest’opera non nata per le scene eppure oggetto dell’interesse dei registi. Grinda, all’opposto delle derive drammaturgiche confuse e autoreferenziali perseguite da diversi suoi colleghi (valgano fra tutti gli esempi di Alvis Hermanis all’Opéra di Parigi e di Damiano Michieletto all’Opera di Roma), ha il merito di seguire il filo della chiarezza e di coniugare alla perfezione tradizione e innovazione. Utilizza gli strumenti della modernità per realizzare uno spettacolo ricco di suggestioni visive che si servono di moderne tecnologie, ma nel suo disegno registico segue fedelmente la tradizione in un mix vincente, da prendere a modello. Ed ecco un Méphistophélès vestito come lo è nell’immaginario operistico collettivo, con penna rossa sul cappello e abito rinascimentale, che appare da subito sulla scena e invita il direttore ad attaccare la prime note della partitura, come a dimostrare che sarà lui a muovere le fila di un racconto che, quadro dopo quadro, svelerà continue sorprese. Al proscenio appare Faust, solo dinanzi a un sipario mostrante un gigantesco manoscritto miniato medievale con al centro un ovale dal quale si gode la vista sull’alba in un giorno di primavera. Come l’obiettivo di una telecamera, l’occhio di bue si allarga e ci introduce al pari di un film nel viaggio di Faust, all’interno di una colorata festa contadina di primavera osservata dal protagonista, desideroso di assaporare quei piaceri della vita campestre che la vecchiaia gli nega. Dinanzi ai suoi occhi la gioiosa festa si tramuta in tragedia quando soldati in divise napoleoniche, durante la celebre “Marche hongroise”, fanno irruzione in scena e, in una accuratissima pantomima in mezzo ai campi verdeggianti di erba alta, fanno scempio dei contadini infilzandoli uno a uno con le loro baionette, non risparmiando nessuno, neanche i bambini che fino a pochi istanti prima scorrazzavano allegri giocando a palla, rei di aver deriso per gioco i militari, scatenando la loro ira vendicativa. Un massacro degli innocenti dinanzi al quale il vecchio e stanco Faust, divenuto indolente ed impermeabile a qualsivoglia emozione, sembra non provare nulla.

Ogni quadro appare curato attraverso l’utilizzo di luci miracolosamente meditate da Laurent Castaingt, come quelle che illuminano morbidamente la Cantina di Auerbach a Lipsia, colma di gigantesche botti di vino. Il viaggio di Faust, accompagnato scena dopo scena da Méphistophélès, che gli ha promesso di tornare giovane e di assaporare i piaceri della vita, prosegue nei boschi e nei prati lungo l’Elba dove si assopisce in un sogno durante il quale vede Marguerite assisa su un palco attorniato da una corona di rose mentre le Silfidi, guidate dalla mano del demonio, danzano attorno a lei con grazia e leggerezza. Per tutto questo, Grinda utilizza ad arte le creazioni video di Julien Soulier e i films di Gabriel Grinda, così come, per le coreografie, si avvale del tocco lieve, raffinatissimo e a tratti anche ironico di Eugénie Andrin. Fondali cangianti, con cieli alla William Turner e vista su monumenti germanici fanno da corona all’apparire della casetta di Marguerite, anch’essa uscita come per incanto da un ovale che la presenta piccolina e poi via via più grande, in un continuo gioco di cangianti trasformazioni visive, fra esterni ed interni dell’abitazione stessa attorno alla quale si muove un Méphistophélès che osserva con astuzia vigile e sottile i risultati delle sue trame fumando una sigaretta. Dopo il duetto di seduzione, Marguerite, sola sulla scena, canta seduta su una sedia la sua solitudine d’amore. Anche Faust, solitario dinanzi all’immensità della Natura, la sola in grado di placare la sua ansia, va incontro al destino di morte che lo attende per aver venduto al diavolo la sua anima in cambio della salvezza per Marguerite. Inizia così il galoppo verso il baratro che lo porterà a sprofondare all’inferno. Qui lo spettacolo presenta “La course à l’abîme” come una corsa sul carrello che scivola senza freni lungo le sue rotaie nella profondità di una miniera fino allo sprofondare di Faust nel rosso precipizio dell’abisso infernale, fra le sue fiamme, svelando una multicolore ed estrosa popolazione di demoni che inneggiano al trionfo di Méphistophélès.
Segue l’apoteosi finale di Marguerite, con luci angeliche che irradiano una candida nuvola che rompe le tenebre del male con l’illuminazione di tanti crocifissi al neon, mentre una parata di Serafini in abiti turchini sfilano accompagnando cori d’osanna. Tutto appare, come si diceva poc’anzi, chiaro ed intelligibile in questo spettacolo perfetto, che utilizza la multimedialità a fini narrativi ed espressivi, fondendola con le scene costruite; ogni quadro svela la cura di un regista che conosce il teatro musicale e ne rispetta i meccanismi, che non si fa intimorire dalla frammentarietà insita in un’opera non nata originariamente per le scene, né cerca soluzioni cariche di significati reconditi, bensì descrive ed unisce il filo del racconto affidando il passaggio da una scena all’altra alla mano magica di Méphistophélès, al suo sardonico tocco che apre la vista alle agili soluzioni visive che danno l’idea di uno spettacolo dinamico, fantasioso e metateatrale, con quel pizzico di ironia che fa da corona al tutto.

Anche musicalmente la bacchetta di Kazuki Yamada, che dell’Orchestre Philharmonique di Monte-Carlo è direttore artistico e musicale, ottiene dall’orchestra e da un Coro dell’Opéra di Monte-Carlo istruito mirabilmente da Stefano Visconti, rimpolpato per l’occasione con diversi elementi aggiunti e anche dal Coro dei bambini della Accademia di Musica Ranieri III, una resa puntuale ed egregia. Il suono è sempre pulito, la ricercatezza e varietà timbrica berlioziana si dispiega a partire dallo scintillio della celeberrima “Marche hongroise”, diretta con souplesse incisiva ma leggera, fino al lirismo di altre pagine o alle finezze del “Songe de Faust” e, più ancora, al “Menuet des follets” della terza parte. Nella “Course à l’abîme”, nel successivo “Pandaemonium” e, soprattutto, nel finale il controllo delle masse e la tersa luminosità della sua direzione offrono garanzie di qualità sonora.

Il cast vocale è di alto livello. Aude Extrémo, Marguerite, annunciata indisposta a inizio recita, ha una voce bella, morbida e vellutata, ma risente qua e là di sporadiche appannature in acuto che si è certi siano frutto di una forma vocale occasionalmente non ottimale. Nicolas Courjal, che come si è detto lo spettacolo impegna molto, è un Méphistophélès di magnifica evidenza scenica, più ironico che demoniaco, sottilmente attento alla parola, con un fraseggio e una pronuncia francese perfetti. L’ironia sottile della Canzone della pulce, l’insinuante incedere carezzevole con il quale intona “Voici des roses” e la flessibilità prestata alla “Sérénade” accompagnando i pizzicati strumentali con una brillante dialettica espressiva da “grand seigneur” del male sono solo alcuni dei tanti momenti che lo rendono un interprete perfetto.
Il tenore Pene Pati, nei panni di Faust, regala una prova a dir poco maiuscola. La voce è flessibile, calda, piena e ben proiettata, il fraseggio elegante e la salita all’acuto così facile da non sembrare creargli alcun affanno, ammorbidendo ad arte i suoni senza fargli perdere di corpo e sostanza. Ed eccolo, nei suoi assoli, imporsi per la delicatezza con cui smorza, in “Merci, doux crépuscule!”, la nota in pianissimo su “Que j’aime”, o l’accento ispirato e accorato donato alla “Invocation à la Nature”. Non teme neppure le puntature acute del duetto d’amore con Marguerite, “Ange adoré”, rotonde e stilisticamente equilibrate nell’utilizzo del suono petto-testa. Davvero una grande prova. L’efficace Brander di Frédéric Caton e Une voiz céleste di Galia Bakalov completano la locandina di uno spettacolo accolto alla prima da incessanti applausi, giusto pegno per un allestimento che ha reso onore sia musicalmente, sia per l’estro immaginativo, la modernità e la classe figurativa, a un importante capitolo della storia dell’Opéra di Monte-Carlo, ricordando appunto la prima esecuzione in forma scenica di quest’opera sulle scene monegasche della Salle Garnier.

Grimaldi Forum, Salle des Princes – Stagione 20/2022
LA DAMNATION DE FAUST
Leggenda drammatica in quattro parti
Libretto di Hector Berlioz e Almire Gandonnière
Musica di Hector Berlioz

Marguerite Aude Extrémo
Faust Pene Pati
Méphistophélès Nicolas Courjal
Brander Frédéric Caton
Una voix céleste Galia Bakalov

Orchestre Philharmonique de Monte Carlo
Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo
Choeur d’Enfants de l’Académie de Musique Rainier III
Direttore Kazuki Yamada
Direttore del coro Stefano Visconti
Direttore del Coro dei bambini Bruno Habert

Regia Jean-Louis Grinda
Scene Rudy Sabounghi
Costumi Jorge Jara
Coreografie Eugénie Andrin
Luci Laurent Castaingt
Video Gabriel Grinda Julien Soulier
Studi musicali David Zobel
Assistente alla messa in scena Vanessa d’Ayral de Sérignac
Assistente ai costumi Uta Baatz
Nuovo allestimento

Monte Carlo, 13 novembre 2022

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