Si sa il posto che occupa Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa), probabilmente il più popolare tra i grandi capolavori di Richard Strauss, nel repertorio e nel cuore del pubblico del Nationaltheater di Monaco di Baviera, in tempi felici o meno. Non stupiscono perciò il pienone e l’autentico clima di festa attorno a questo vero evento, pur trattandosi di una ripresa prima del Festival dell’estate prossima. La mia prima esperienza qui risaliva al 1984, con lo stesso titolo sotto la bacchetta magica di Carlos Kleiber e con due interpreti privilegiate quali Lucia Popp e Brigitte Fassbaender nei ruoli dei due giovani innamorati. Questa volta non mi sono trovato davanti a qualcosa di miracoloso, ma a una produzione fatta molto bene e molto bilanciata in tutti i suoi aspetti: probabilmente la cosa oggi più difficile da ottenere. In questo senso, le vere e proprie ovazioni che hanno salutato tutti alla fine della rappresentazione sono davvero emblematiche. Ma cerchiamo di vedere più da vicino.
L’allestimento per la regia di Barrie Kosky era una carta vincente della produzione. Sentire l’applauso all’ingresso nel secondo atto della carrozza d’argento del cavaliere della rosa riportava ai vecchi tempi, anche se probabilmente non tutti avvertivano l’aspetto ironico di quei cavalli-attori che scalpitavano. L’atto primo è risolto molto bene con pochi elementi e il terzo diventa un palcoscenico-taverna con in fondo una platea dove compaiono alcuni degli interpreti fino all’arrivo inatteso della Marescialla. Ecco, proprio lei, uno dei più grandi personaggi della storia del teatro lirico, donna affascinante ancora giovane, una ‘Resi’ diventata Marie-Therese e poco sicura che questo sia stato davvero un trionfo personale, malinconica e generosa ma anche godereccia.
Tutti gli altri personaggi cedono – come si deve – davanti a lei, e anche il vanesio Ochs per una volta non è un vecchio ridicolo: stupido forse sì, ma non vecchio e in fondo da compatire. Alcuni momenti o qualche sparso dettaglio saranno magari un po’ discutibili o sopra le righe, ma la presenza di un orologio che cambia forma ma non smette di scandire il tempo, salvo alla fine quando si ferma (probabilmente per un attimo fuggente), o la sostituzione del piccolo moretto con un vecchio e stanco Cupido che ancora fa il suo lavoro con tanto di arco e freccia, vi fanno sorridere e riflettere. E forse a qualcuno sfugge anche una furtiva lagrima in momenti come il finale dell’atto primo o la conclusione dell’opera, con quella musica umanissima e sublime.
Ecco, la musica: certo non prima delle parole ma neanche dopo. L’orchestra, nota per la sua duttilità, era messa a fuoco dall’attenta direzione di Vladimir Jurowski (qualche volta attratto da sonorità non molto trasparenti e inclini al forte) con il contributo puntuale del bravo coro del Teatro istruito da Stellario Fagone.
Nel cast, nessun ruolo risultava coperto a caso o in modo precario. Perfino la malattia all’ultim’ora del cantore italiano è stata risolta egregiamente dal tenore Josh Lovell: arrivato da Vienna un’ora prima dell’inizio, si è inserito nello spettacolo in modo esemplare. Si dica bene in particolare della Jungfer Marianne Leitmetzerin di Daniela Köhler, molto azzeccata, e dei due intriganti italiani, temibili e viscidi, Ulrich Reiss (Valzacchi) e la vivacissima Annina di Ursula Hesse von den Steinen. Il borghese piccolo piccolo (Faninal) di Johannes Martin Kränzle era esemplare da tutti i punti di vista.
E poi, certo, c’erano i quattro interpreti principali. In assoluto credo che sia stato l’Ochs di Christof Fischesser il personaggio più completo su tutti i versanti: voce bella, salda, interpretazione ottima e (per quanto posso capirci) fantastico dialetto viennese. Liv Redpath, vincitrice di uno dei recenti concorsi Viñas di Barcellona, era una Sophie praticamente ideale e molto combattiva. Marlis Petersen sarà forse l’unica Marschallin che si può presentare in negligé trasparente e farci capire il perché del suo successo tra gli uomini. Eccellente artista e cantante musicalissima, la voce non è (non so se lo sarà mai) esattamente l’ideale perché risulta troppo chiara e fredda come timbro ma non c’è una nota fuori posto. Molto applaudito anche il mezzosoprano Samantha Hankey nel ruolo del titolo: non è una voce bella e pare un po’ al limite in zona acuta e alquanto scarsa nei gravi, ma con un centro molto consistente: è comunque una brava artista, forse più a suo agio come maschietto Oktavian che non nei panni di Mariandl (l’immaginaria ‘sorella bastarda’), alquanto caricaturale. Ma alla fine il risultato è stato quello di cui ho parlato all’inizio.