Difficile pensare a un’opera più cupa e pessimista di Boris Godunov. Composta sulle linee tracciate dalla “Storia dello Stato russo” di Karamzin e dall’omonimo dramma di Puškin, riplasma la vicenda in un insieme molto più drammatico e sinistro rispetto alle fonti. Benché interessato alle forme popolari, Musorgskij non idealizza le masse e non crede all’utopia romantica del popolo come portatore di particolari virtù nazionali. Allo stesso tempo, non subisce il fascino del mito imperiale, rifiutando sia i principi illuministici di un governo razionale, sia l’idea di un concreto progresso storico. La storia, per lui, è aperta alla casualità, alla possibile mancanza di un senso. Inoltre, per quanto interessato all’occulto, non è credente: i sistemi salvifici – cristiani o hegeliani che siano – gli sono estranei.
Kasper Holten e Riccardo Chailly, regista e direttore della nuova produzione con cui il Teatro alla Scala inaugura la stagione 2022/23, hanno sottolineato in diversi interventi come il protagonista e alcune situazioni del Boris abbiano punti di contatto con il Macbeth scespiriano, ma anche con l’omonima opera di Verdi con cui la Scala ha aperto la scorsa stagione, individuando quasi un filo conduttore fra le due inaugurazioni. Vero è che la dimensione di totale pessimismo storico in cui è immerso il dramma musicale di Musorgskij sembrerebbe avere maggiori analogie con un altro capolavoro verdiano, Don Carlo. In entrambe le opere, infatti, i sovrani protagonisti (interpretati da voci di basso) esercitano il potere con una spietatezza implacabile che schiaccia le aspirazioni sia dei singoli che del popolo oppresso. Ma potremmo ricordare, tra le convergenze, anche la spettacolare scena dell’incoronazione, o il grande monologo in cui il protagonista apre il suo animo e riflette sulle conseguenze nefaste che la conquista del trono e la gestione del potere hanno avuto nella sua vita privata.
Nello spettacolo di Kasper Holten, invece, Boris è un personaggio di portata scespiriana devastato dal potere che guarda più a Macbeth che a Filippo II. Lo dimostra, tra le soluzioni adottate, lo spettro del piccolo Zarevic che accompagna lo zar infanticida fin dalla sua apparizione in scena. Una presenza ossessiva che rimanda ai fantasmi di Macbeth e intende materializzare un senso di colpa talmente profondo e irrisolto da sfociare nella follia. Scelta che tuttavia si rivela alla lunga eccessiva. Quando il celebre allestimento di Andrej Tarkovskij nato per il Covent Garden di Londra venne rappresentato nel 1994 alla Fenice di Venezia, una parte della critica trovò pleaonastica la visualizzazione del fantasma di Dimitrij. Qui siamo addirittura all’invasività.
Altra presenza emblematica è quella del monaco Pimen, che scrive la cronaca degli eventi di cui è stato testimone raccontando realisticamente la brutalità del potere. Nel libretto di Musorgskij appare nel terzo quadro, Holten lo presenta invece già in apertura d’opera a simboleggiare l’importanza di testimoniare la verità storica contro ogni forma di censura e manipolazione. È talmente preminente questo aspetto da dare un’impronta decisiva anche all’impianto scenico di Es Devlin. Al centro del palco cupo e dorato si staglia una pergamena bianca su cui scorrono parole e disegni: una sorta di libro dove si scrive simbolicamente la storia e agiscono i protagonisti. La pergamena e la presenza di una grande mappa geografica sullo sfondo sono il Leit Motiv dello spettacolo. Se l’impianto scenico è nell’insieme funzionale al susseguirsi dei diversi quadri, è anche vero che l’unità di tono risulta forse eccessiva e, tolta la spettacolare scena dell’incoronazione, si sente l’esigenza di una più precisa differenziazione di ambienti e atmosfere. Formalmente, Boris Godunov non è una vicenda coesa e compatta, ma un grande affresco realistico ottenuto attraverso una serie di scene staccate (sette nella versione del 1869 qui adottata). Pertanto, considerato che il compositore stesso rinuncia programmaticamente all’unità, la scelta di puntare a una rappresentazione unitaria è di per sé una contraddizione.
I costumi (Ida Marie Ellekilde) sono di foggia ora cinquecentesca (l’epoca di Boris), ora ottocentesca (l’età di Puskin), con qualche richiamo moderno, secondo un sincretismo temporale che tende a sottolineare l’universalità e la perenne attualità dei temi trattati. Per fortuna Holten ha il buon gusto di evitare riferimenti espliciti alle vicende del nostro tempo. Lo spettacolo intreccia così realismo illustrativo e simbolismo e, con il precipitare di Boris nella follia, non mancano momenti visionari che sconfinano addirittura nell’horror: nella scena di San Basilio vengono portati in proscenio corpi di bambini massacrati, evidente richiamo alle stragi causate dai conflitti di ogni epoca. Quanto alla recitazione, la regia tende a soluzioni piuttosto tradizionali, a tratti convenzionali, soprattutto nella prima parte, a eccezione della prova attoriale strepitosa del protagonista.
Tra le tante versioni disponibili del Boris – partitura sottoposta da Musorgskij a più stesure e riorchestrata da Rimskij-Korsakov (ma anche da Šostakovič) – oggi si tende a preferire quelle con la scabra, originaria orchestrazione di Musorgskij stesso. Una scelta quasi obbligata a cui si attiene anche Riccardo Chailly, che si rifà per la precisione alla prima edizione, l’Ur-Boris, portata a termine dal compositore russo nel 1869 e dunque priva del cosiddetto “atto polacco” e dei personaggi di Marina e Rangoni che figurano invece nella versione del 1871-72.
Nell’affrontare la materia sonora densa e scura con cui è scolpito questo primo Boris, Chailly tende ad attutire talune asprezze della partitura: la scena dell’incoronazione, per esempio, è forse meno grandiosa e “barbarica” rispetto a quella di altri direttori. La lettura risulta tuttavia intensa e di ampio respiro nel fraseggio, improntata a una resa espressiva sensibile, a una tensione drammatica forte ma al tempo stesso equilibrata. Chailly realizza con efficacia la coralità dell’opera, bene assecondato dall’orchestra, dall’intensità espressiva del coro preparato da Alberto Malazzi e dall’ottimo Coro di voci bianche dell’Accademia della Scala diretto da Bruno Casoni. Inoltre, valorizza con chiarezza esemplare le scene più intime e introspettive, evidenziando – grazie all’uso delle mezze tinte e di sfumature emozionali concise – la perfetta integrazione musorgskiana di parola e musica. Sotto questo profilo, l’accurato lavoro di scavo svolto dal direttore e dal protagonista sono esemplari.
Nel ruolo eponimo, Ildar Abdrazakov offre una prova eccezionale, ponendosi nel solco dei grandi bassi della tradizione slava, di cui non accoglie però il ricorso al parlato, gli eccessi realistici, gli istrionismi. Il suo Boris, riletto con gusto moderno, è intimistico, tormentato, nobile, sempre risolto nel canto. Pur non disponendo di un volume imponente, la vocalità da basso-baritono gli consente di dominare agevolmente la scabrosa tessitura acuta della scena dell’incoronazione, e di esibire un registro medio-grave comunque ben timbrato. Abdrazakov rende in modo magnifico la complessità del personaggio, piegandosi all’introspezione psicologica con fraseggio analitico e rigorosa asciuttezza espressiva. Recita benissimo, con grande immedesimazione, e giganteggia sia nel monologo che nella scena della morte, dove il canto a mezzavoce, tutto interiorizzato, conferisce a ogni parola il suo giusto peso.
Non del tutto a fuoco, invece, la figura di Pimen: Ain Anger ha certamente una voce scura e corposa e restituisce le riflessioni del monaco testimone dell’omicidio con espressione sentita e ieratica. Tuttavia l’emissione è oscillante, disomogenea, e a tratti nemmeno l’intonazione è precisa. Vocalmente corretto, invece, Dmitry Golovnin che tratteggia il ruolo di Grigorij, il falso Dimitrij, con efficacia sul fronte espressivo, in particolare nel declamato. Bene anche l’Innocente di Yaroslav Abaimov, vocalmente chiaro ma immedesimato, sottile nell’accento e toccante nel fraseggio. Ottimo Alexey Markov, che nella parte di Andrej Ščelkalov si fa valere per il bel timbro risonante e la fonazione puntuale. Insinuante nell’espressione ma opaco nella vocalità il Principe Šujskij di Norbert Ernst. Più efficace nella caratterizzazione che nel rendimento vocale anche il Varlaam di Stanislav Trofimov. Nelle parti di Ksenja e Fëdor si fanno apprezzare Anna Desinova e Lilly Jørstad. Ineccepibile la nutrice di Agnieszka Rehlis. Completano decorosamente la locandina Alexander Kravets, Misail, Maria Barakova, l’Ostessa, Oleg Budaratskiy, Guardia, Roman Astakhov, Mitjucha, Vassily Solodkyy, Boiaro di corte.
Alla fine della recita, tredici minuti di applausi. Accoglienze calorose per Anger, acclamazioni per Chailly e Holten, successo cordiale per gli altri. Ha trionfato Abdrazakov.
Teatro alla Scala – Inaugurazione Stagione 2022/23
BORIS GODUNOV
Dramma musicale popolare in un prologo e tre atti (versione 1869)
dalla tragedia omonima di Aleksandr Puškin
e dalla Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin
Libretto e Musica di Modest Petrovič Musorgskij
Boris Godunov Ildar Abdrazakov
Fëdor Lilly Jørstad
Ksenija Anna Denisova
La nutrice di Ksenija Agnieszka Rehlis
Principe Vasilij Šujskij Norbert Ernst
Andrej Ščelkalov Alexey Markov
Pimen Ain Anger
Grigorij Otrep’ev Dmitry Golovnin
Varlaam Stanislav Trofimov
Misail Alexander Kravets
L’ostessa della locanda Maria Barakova
L’innocente Yaroslav Abaimov
Pristav, capo delle guardie Oleg Budaratskiy
Mitjucha, uomo del popolo Roman Astakhov
Un boiaro di corte Vassily Solodkyy
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Alberto Malazzi
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
diretto da Bruno Casoni
Regia Kasper Holten
Scene Es Devlin
Costumi Ida Marie Ellekilde
Luci Jonas Bøgh
Video Luke Halls
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 7 dicembre 2022