Alessandra Ferri, ovvero la “Magnani della danza”, classe 1963, comincia in una scuola privata, passa a quella celebrata della Scala, brucia le tappe con una determinazione che è la sua vena esistenziale. Memorabile il primo vero debutto. È il febbraio 1985 e Franco Zeffirelli firma la regia di un Lago dei cigni dove, come raramente capita, Odette e Odile, cigno bianco e cigno nero, si sdoppiano e diventano due danzatrici. Qui Carla Fracci e Alessandra Ferri. Ricordiamo quel giorno. Lei aveva 21 anni. Chiediamo un’intervista e una giovanissima e sconosciuta Alessandra arriva al Biffi Scala seguita dalla mamma che porta in mano due buste del supermercato. Già da subito niente divismi.
Tuttavia, per Alessandra la danza non è fatta di tenui tutù bianchi, bensì intrisa di sensualità, espressività, vita, arte con la A maiuscola. O la si capisce o lei se ne va. Infatti lascia i teatri e i maestri più famosi in un amen, da McMillan a Anthny Dowell a Michail Baryshnikov. In effetti, è una sorta di controfigura della Fracci, e il loro repertorio spesso si sovrappone. Ma Carla è dolcezza, soavità, bellezza, la Maria Taglioni del nostro tempo. Alessandra segue altri percorsi, per lei la danza non è né missione né il per sempre. Forse preferirebbe essere un’attrice. Forse una madre, una moglie o anche solo una compagna. Tutti le corrono dietro, si affaccia al suo camerino persino Zeffirelli. Nella sua esistenza volitiva, estemporanea e turbolenta, c’è posto per ogni situazione, felicità assolute e lutti dolorosissimi. E anche per un amore totalizzante che se la porta via, quello per il celebre fotografo d’arte Fabrizio Ferri, che la ritrae irresistibile mentre si getta dalle rocce di Pantelleria. Poi improvvisamente Alessandra, anche étoile della Scala, lascia la danza: non appartiene alla schiera di chi ricorda e sospira. “Ho girato il mondo, sono diventata famosa, ho avuto tutto e tutti. Adesso mi fermo, poi si vedrà”. Non la si incontra più per sette anni. Intanto sono nate due figlie, Matilde e Emma, oggi sui 20, 25. Poi, dopo gli anni di assenza dalle scene, la ritroviamo a Spoleto con Baryshnikov. È ancora tecnicamente fragile ma si riprende in fretta.
Dopo mille altre avventure, rieccola al Piccolo Teatro Strehler di Milano per celebrare i 40 anni di carriera con L’Heure Exquise, variazioni su un tema di Oh, les Beaux Jours di Samuel Beckett. Tema portante il valzer della Vedova allegra e, nel mezzo, una colonna sonora che accosta Webern, Mahler e Mozart (Glenn Gould). Chi poteva essere l’istrione? Maurice Béjart, ovviamente, che nel 1998 aveva pensato Giorni felici, “una delle pièce più importanti del XX secolo”, per Carla Fracci. Winnie, ballerina in età, ripensa alle glorie passate, appunto ai giorni felici. Ma è paralizzata, incastrata in una montagna di scarpette rosa da punta usate (prima, Strehler per la Lazzarini, aveva utilizzato sabbia, sabbia sepolcrale) fino alla vita. Finalmente Alessandra recita, dice con una vocina esile ed esaltata la sua vita di successi. A tratti, la montagna rosa si apre e lei accenna qualche passo: illusione, realtà? Accanto a lei un uomo, una specie di schiavo animalizzato e fedele, Thomas Whitehead (con la Fracci era Micha van Hoecke). Le parole sono poche, la gestualità che la trasforma in un pupazzo muto ancor meno, l’atmosfera densa di tormento. La nostra Alessandra una superba tragédienne. Tutta l’angoscia del mondo è nella sua levità e nei suoi silenzi. In camerino, dirà poi che oggi la danza è la sua salvezza. Il Piccolo, esaurito, è attanagliato, forse stupito. Un trionfo.