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Londra, Royal Opera House – Tosca

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Nelle settimane che precedono il Natale la Royal Opera House di Londra ha in cartellone una serie di riprese di spettacoli tradizionali cosiddetti crowd pleaser, che fanno contenti i più e garantiscano il successo di botteghino in un periodo in cui la capitale inglese è presa d’assalto dai turisti, sia inglesi che internazionali. Uno di questi è la ripresa della celebre produzione di Tosca con la regia di Jonathan Kent, curata per l’occasione da Simon Iorio. Come da previsioni, sala gremita e buon successo per uno spettacolo evergreen che si conferma bello da vedere, nella sua tradizionalità, con un aspetto estetico appagante e suggestivo. Una compagnia di canto ben assortita che vedeva impegnato anche l’italiano Gabriele Viviani e la direzione impeccabile da parte di un veterano della concertazione dello spartito pucciniano, ovvero il direttore israeliano Daniel Oren, sono stati determinanti per la riuscita della serata.

Nel ruolo del titolo di questa produzione, concepita nel 2006 come veicolo per la diva Angela Gheorgiu, si sono cimentate nel tempo una serie di altre cantanti, tra cui anche Anna Pirozzi a dicembre 2021. Quest’anno, nel primo cast, il ruolo della primadonna Floria Tosca è stato affidato al soprano svedese Malin Byström che a settembre aveva stregato il pubblico londinese nella Salome. La sua prestazione è stata soddisfacente anche se discontinua, con qualche cenno di stanchezza evidente nel terzo atto. Seppure il suo non sia un suono rotondo e tornito, gli acuti hanno una bella radiosità e taglio penetrante, ideale per le puntature e le progressioni che si alternano nei momenti di maggior tensione nel confronto con Scarpia, tutte ben proiettate. Nel terzo atto, forse complice la stanchezza, gli acuti si sono invece via via assottigliati. A tratti deboli i gravi (come in “È morto! Or gli perdono”), mentre i centri avevano una buona consistenza e dei bei toni scuri. Nel secondo atto, quando la tensione narrativa e musicale si ferma per la parentesi del “Vissi d’arte”, il canto si fa anche troppo intimista e fragile, a discapito della musicalità e del testo. Avremmo voluto sentire un maggior trasporto nel fraseggio e una maggior varietà dinamica. Molto convincente invece la recitazione, come nella scena che precede l’accoltellamento di Scarpia o come quando cerca di convincere Cavaradossi che andrà tutto bene, prima della finta esecuzione. Byström è poi una bellissima donna dal fisico statuario: si muove con disinvoltura per il palcoscenico, usando lo strascico dell’abito stile impero con grande drammaticità. Insomma è credibile come primadonna e altrettanto credibile nella manifestazione della gelosia nel primo atto, dopo aver riconosciuto il volto della marchesa Attavanti nel quadro di Maria Maddalena.

Come Cavarodossi abbiamo ascoltato una voce che non conoscevamo ancora ma che ha già cantato alla ROH (e al MET), quella del tenore gallese Gwyn Hugh Jones, che in repertorio ha una serie di ruoli pucciniani e verdiani. Era difficile far dimenticare la ripresa dell’anno scorso dove il tenore Freddie De Tommaso aveva rubato la scena e conquistato tutti, pubblico e critica, anche a seguito di una sostituzione all’ultimo minuto. Eppure Jones ha colpito per la cura dimostrata nel plasmare con eleganza e sensibilità musicale “Recondita armonia” (bello il diminuendo finale) e “E lucevan le stelle” (struggente e introspettiva). Buona anche la dizione italiana. Jones è stato poi molto efficace nei duetti amorosi, dove la voce ben comunicava passione e trasporto. Qualche suono volutamente sporcato nei momenti di maggior tensione del secondo atto era funzionale all’interpretazione (come nello scoppio d’ira contro Scarpia “Carnefice! Carnefice!).
Unico italiano nel cast, il baritono Gabriele Viviani ha dato vita a uno Scarpia convincente per autorità e per un canto sicuro, musicale e ben timbrato. Nei panni del capo della polizia, Viviani è giustamente autoritario quando declama “Un tal baccano in chiesa! Bel rispetto!”, malignamente sadico quando ordina “Aprite quelle porte… Più forte, Più forte” e ossessionato predatore quando esclama “Tosca, finalmente mia!”. Nel Te Deum la voce ha avuto adeguata presenza in sala. Il suo non è stato uno Scarpia caricaturale o troppo enfatico e Viviani ha saputo curare bene la linea di canto, che ha comunicato anche l’ardore di un sadico guidato dal desiderio di possedere Tosca. Fisicamente e nel gesto ha esibito la giusta imponenza scenica richiesta al personaggio.
Presente anche nel cast dello scorso anno, Jeremy White ha dato vita a un sagrestano teatralmente efficacissimo nell’essere bonaccione, alticcio e ironicamente ben caratterizzato. Un po’ confusi, almeno in termine di chiarezza della dizione italiana, gli interventi di Josef Jeongmeen Ahn nei panni del rivoluzionario Cesare Angelotti, efficace lo Spoletta di Hubert Francis, funzionale lo Sciarrone di Thomas D. Hopkinson e ben sonoro l’intervento del carceriere di John Morrissey.

In buca c’è un direttore che la partitura pucciniana la conosce nel dettaglio, avendola diretta per decenni. Daniel Oren, alla guida della formazione del Covent Garden, ha dimostrato ancora una volta di avere grande affinità con il lirismo pucciniano, garantendo al contempo una buona varietà agogica e serrando le fila della narrazione tra attacchi sferzanti e climax drammatici, in cui si ritagliavano delle oasi liriche valorizzate con buona varietà di sfumature. Il tutto garantendo compattezza del suono ed espressività dell’insieme e dei soli. Puntuali gli interventi del coro della ROH diretto da William Spaulding.

Lo spettacolo, come detto, era quello arcinoto di Jonathan Kent con le scene e costumi di Paul Brown e le luci di Mark Henderson che avevamo descritto più in dettaglio lo scorso anno (qui il link). Un’ulteriore visione ha confermato l’innegabile suggestione di alcuni momenti. Pensiamo all’arrivo dei bimbi festanti che corrono giù dallo scalone di Sant’Andrea della Valle, il fasto visivo rosso-oro della Roma cattolica nel Te Deum su un piano rialzato della chiesa, l’illuminazione a candela del secondo atto (dove la scena finale con Tosca che lascia la camera di Scarpia candelabri alla mano ha un vero fascino pittorico) e il lavaggio del soldato all’inizio del terzo atto con cielo stellato sullo sfondo. Verrà il momento del pensionamento e di una sostituzione anche per questo spettacolo, ma speriamo il più tardi possibile perché l’allestimento effettivamente lascia appagati e funziona ancora alla grande. In tempi di crisi è plausibile che un teatro di repertorio come la ROH ci pensi bene prima di voltare pagina. D’altronde, La traviata di Richard Eyre resiste dal ’94; quindi anche questo spettacolo potrebbe avere ancora vita lunga.
Al termine applausi calorosi per tutti gli interpreti. La serie di recite continuerà fino a prima di Natale, anche con un secondo cast che comprende la debuttante Natalya Romaniw, Freddie De Tommaso (recensito da Connessi nel ruolo di Cavaradossi proprio l’anno scorso) ed Erwin Schrott. Il successo di Tosca dimostra che per vendere biglietti l’opera italiana è imbattibile e di questo il teatro inglese sembra pienamente consapevole.

Royal Opera House – Stagione 2022/23
TOSCA
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini

Floria Tosca  Malin Byström
Mario Cavaradossi Gwyn Hughes Jones
Barone Scarpia Gabriele Viviani
Sagrestano Jeremy White
Cesare Angelotti  Josef Jeongmeen Ahn
Spoletta Hubert Francis
Sciarrone Thomas D. Hopkinson
Un carceriere John Morrissey

Orchestra e Coro della Royal Opera House
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro William Spaulding
Regia Jonathan Kent  ripresa da Simon Iorio
Scene e costumi Paul Brown
Luci Mark Henderson

Produzione della Royal Opera House
Londra, 28 novembre 2022

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