Dopo quasi vent’anni dalla sua ultima rappresentazione, Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns torna sul palcoscenico della Royal Opera House di Londra. Era infatti il 2004 quando andava in scena l’ultima ripresa dello storico allestimento del 1981 firmato da Elijah Moshinsky con le scene e costumi di Sidney Nolan. Una delle produzioni più longeve della storia del teatro e che negli anni aveva coinvolto interpreti del calibro di John Vickers, Placido Domingo, Shirely Verrett, Agnes Baltsa e Olga Borodina, viene ora mandata definitivamente in pensione, o così sembra. È stato infatti proposto un nuovo allestimento con la regia di Richard Jones. La produzione, pur con qualche spunto interessante e qualche momento visivamente d’impatto, non riesce certo a far dimenticare la precedente, a causa di un impianto estetico bruttino, dove il minimalismo dei primi due atti lascia il posto a lustrini e glitter in un terzo atto, per contro, esteticamente un po’ pacchiano. Va meglio sul versante musicale, grazie a un cast ben assortito e alla prestazione delle forze orchestrali e corali del teatro, sotto la bacchetta vigorosa e attenta del maestro Antonio Pappano.
Richard Jones ambienta la vicenda in tempi moderni pur senza chiari riferimenti al conflitto israelo-palestinese, che renderebbe discutibile e controversa l’identificazione di oppressi e oppressori. Nicky Gillibrand firma costumi dai richiami confusi. Dalila veste dapprima un abitino floreale moderno che sembra preso al mercato (è questo l’unico riferimento alla componente esotica dell’opera?). Nel terzo atto invece si trasforma in una sorta di diva hollywoodiana stile Hedy Lamarr. Gli ebrei che compaiono in costumi dai toni grici-beige apparentemente ispirati ai ghetti novecenteschi sono soggetti a violenze e soprusi da parte di un esercito di filistei, di cui inizialmente non si capisce bene scopo e appartenenza. Le loro uniformi consistono in pantaloni blu dalle strisce bianche e camice arancioni sul cui retro campeggia il volto del Dio Dagon. L’aspetto di Dagon e il ruolo dei filistei diventano più chiari nel terzo atto, quando entra una mega statua di Dagon nelle sembianze di clown azzurro dai capelli (e denti) dorati con in mano slot machine e fiches da casinò. Una sorta di divinità del peggior materialismo. L’esercito dei filistei è intento a gestire gli introiti di gioco d’azzardo, mentre il coro dei filistei ha abiti decadenti Art Deco con tocco moderno Kitsch. Ecco che è finalmente chiaro che l’ispirazione registica non è tanto un contrasto teologico, quanto piuttosto la contrapposizione tra la morale da una parte e la corruzione materiale del denaro.
Pur senza una visione registica di ispirazione biblica, Jones utilizza simbologia religiosa a iosa. Stelle di Davide sono impresse sui libretti delle preghiere e compare anche la Torah. Vi è poi una componente splatter in termini di abuso di (finto) sangue in scena, a partire dall’uccisione di Abimélech, a seguire poi con l’uccisione del vecchio ebreo nelle vesti di Rabbino e con l’accecamento di Sansone.
Le scene di Hyemi Shin sono essenziali, con un set di colori che oscilla tra il rosso, l’oro, il blu, il beige e il giallo-verde. In apertura, un grande cubo a rappresentare il tempio viene trascinato in scena con una grande fune da Sansone, la cui forza deriva da lunghi capelli neri. Delle travi di legno massiccio fanno da soffitto al tempio, mentre delle gradinate vengono usate per far disporre gli ebrei, ma anche i filistei in alcuni dei rispettivi interventi corali. Nella scena finale le travi si muoveranno verso il basso in modo scomposto, a simulare il crollo del tempio. Il meccanismo scenico fila senza intoppi, ma non si può parlare proprio di finale a effetto che lascia il pubblico senza fiato. Un lungo tavolo di legno viene poi usato per esibire la Torah, ma anche come passerella per cantanti o soldati filistei. La casa di Dalila è uno spaccato che viene fatta ruotare in scena mostrando di volta in volta la facciata o gli interni, entrambi bruttini. Altro elemento scenico è una struttura a scale che verrà usata per l’entrata di Dalila da un lato, mentre dall’altro le scale scendono in uno stanzino claustrofobico che funge sia da stanza di comando del sommo sacerdote che come prigione.
Le luci di Andreas Fuchs creano effetti fluo arancione-rosso su pannelli che delimitano lo spazio scenico e alcune proiezioni creano l’effetto temporale nel secondo atto. Simpatiche anche se grottescamente surreali le coreografie stile ballo di gruppo a una festa mascherata di Lucy Burge che hanno animato il Baccanale del terzo atto, privo tra l’altro di ogni riferimento orgiastico. Sia tutti i membri del coro, che un gruppo di professionisti sono stati coinvolti nei passi di danza. Intrattenimento garantito anche se si è tolta l’attenzione dal lussureggiante accompagnamento orchestrale.
Come detto, musicalmente è andata molto meglio. Antonio Pappano ha condotto con polso, passione e istintività, valorizzando le diverse componenti della partitura, dagli elementi da grand opéra agli influssi tedeschi, inclusi gli elementi barocco-contrappuntistici e le inflessioni esotico-orientaleggianti. È riuscito poi a ottenere un buon equilibrio senza soverchiare troppo i cantanti ed è stato fatto un buon lavoro nella resa degli affondi dei violoncelli, ma anche nella cura delle tessiture strumentali e innesti solistici. Il coro della Royal Opera diretto da William Spaulding è apparso vocalmente in grande forma. Peccato che l’apertura afflitta di “Dieu! Dieu d’Israel” venga fatta fuori scena, il che ha dato l’effetto di un pianto lontano, ma senza quella bella densità di suono che apre l’opera; per fortuna il coro è poi entrato in scena nella parte di maggior impatto sonoro. Suggestivo il coro delle donne filistee “Voici le printemps”, mentre giubilante e solenne è stato il coro finale “Gloire à Dagon vainqueur!”.
Elīna Garanča è una delle interpreti di riferimento di oggi del ruolo di Dalila, che ha ormai portato in diversi teatri, tra cui il MET. Sulla carta non sarebbe un ruolo ideale per lei, visto che, se pensiamo agli interpreti del passato non siamo in presenza di quei densi gravi di petto stile Obratsova, Verrett o Ludwig. Il registro grave di Garanča si è comunque rafforzato da quando ha affrontato questo titolo per la prima volta e la cantante ha il pregio di non gonfiare suoni o ricorrere a quelle brutture che si sentono in giro di frequente. Si muove poi dai bassi agli acuti con disinvoltura. Il suo canto rimane sempre elegante e fluido, insomma mai volgare. “Mon coeur s’ouvre à toi voix” diventa irresistibilmente avvolgente e seducente. Quella di Garanča è una Dalila ingannatrice, assetata di vendetta, ma infine mossa da un impulso compassionevole, almeno nella lettura che ne dà Jones. Si vede che ha lavorato sul ruolo e lo ha fatto suo col tempo. Anche se la sensualità dell’interpretazione è apparsa in qualche modo controllata (vuoi per personalità o per freddezza asettica della produzione), la bellezza di Garanča, come quando entra in scena nel terzo atto d’oro luccicante vestita, è oggettivamente indiscutibile e da sola vale il costo del biglietto.
SeokJong Baek, in sostituzione di un infortunato Nicky Spence nel ruolo di Sansone, era al suo debutto al Covent Garden. Per essere un tenore debuttante emergente, si è difeso alla grande. Sicuro nell’emissione, Baek ha mostrato una bella tenuta, senza cenni di stanchezza. Perfettibile la presenza scenica anche perché priva della mascolinità di un Domingo o un Vickers, ma il canto è stato molto apprezzato dal pubblico in sala. C’era eroismo nel suo timbro dalle tinte bronzee, levigatezza nel modo di plasmare la voce e anche grande cura nel porgere le mezzevoci nel terzo atto. La resa di “Arrêtez, ô mes frères” nel primo atto aveva il giusto impeto nell’atto di rimproverare gli ebrei e nell’incitarli a spezzare il giogo dell’oppressione filistea. Pare proprio un nome di qualità da tenere d’occhio, con un grande potenziale di crescita.
Łukasz Goliński è un sommo sacerdote dalla voce ben brunita con un graffio metallico che aggiunge un po’ di perfidia al personaggio. Convincente l’Abimélech di Blaise Malaba anche se non con lo stesso spessore vocale dei colleghi. Brilla in tutti i sensi invece, il suo cranio dipinto d’oro. Il vecchio ebreo di Goderdzi Janelidze, dalla buona presenza vocale, è in questa produzione il Rabbino di Sansone, che dopo essere ucciso ricompare come video proiezione, quasi a dare speranza al Sansone, ormai accecato e privato delle sue forze. Funzionali i contributi di Thando Mjandana come messaggero filisteo e Alan Pingarron e Chuma Sijega rispettivamente come primo e secondo filisteo.
Al termine applausi convinti, soprattutto per i due interpreti principali, il coro e il maestro Antonio Pappano. Non si può parlare però di trionfo vero e proprio e rimane da vedere se la produzione reggerà alla prova del tempo.
Royal Opera House – Stagione d’opera e balletto 2021/22
SAMSON ET DALILA
Opera in tre atti e quattro quadri
Libretto di Ferdinand Lemaire
Musica di Camille Saint-Saëns
Dalila Elīna Garanča
Samson SeokJong Baek
Il sommo sacerdote di Dagon Łukasz Goliński
Abimélech, satrapo di Gaza Blaise Malaba
Un vecchio ebreo Goderdzi Janelidze
Un messaggero filisteo Thando Mjandana
Primo filisteo Alan Pingarron
Secondo filisteo Chuma Sijeqa
Orchestra e Coro della Royal Opera House
Direttore Antonio Pappano
Maestro del coro William Spaulding
Regia Richard Jones
Scene Hyemi Shin
Costumi Nicky Gillibrand
Luci Andreas Fuchs
Coreografie Lucy Burge
Nuova produzione della Royal Opera House
Londra, 7 giugno 2022