Il regista più controverso e discusso degli ultimi anni, quello il cui nome, ma del solo per altro, è sufficiente a sollevare anatemi di melomani aprioristicamente oltraggiati dalle sue personali letture dei capolavori del melodramma, è approdato al cinema. Parliamo ovviamente di Damiano Michieletto e del suo Gianni Schicchi trasmesso con successo alcuni giorni fa da Rai1 (dove è stato seguito da 671.000 spettatori) e ora visibile su RaiPlay (qui il link).
Come per molti illustri precedenti, bisogna avere ben presente il fatto che non siamo davanti a una ripresa teatrale, bensì a un prodotto classificabile in un genere preciso, quello del film-opera, che nasce dall’ibridazione di due linguaggi affini, e tuttavia profondamente caratterizzati. La differenza non risiede tanto nel potenziale, offerto dalla cinepresa, di rimarcare l’aspetto non-verbale della comunicazione, ma nel diverso ritmo che ciò impone rispetto al linguaggio teatrale che, nel caso dell’opera, si muta in ritmo musicale, ovvero in un codice completamente diverso. Anzi, proprio questo codice comunicativo, nel luogo per il quale è stato pensato, detta legge e impone il ritmo alla rappresentazione. Il nostro pensiero, davanti a una simile operazione non deve, tuttavia, andare esclusivamente ai vari Carmine Gallone o a Franco Zeffirelli, per citare due soli fra i più celebri autori di film-opera. Potremmo, anzi, considerare altri ambiti: qualcosa di affine era stato tentato, a ben vedere, anche da John Steinbeck, che nel suo romanzo del 1944, La luna è tramontata, aveva provato, per sua stessa ammissione, a ibridare teatro e romanzo. La citazione dal Macbeth di Shakespeare da cui il Premio Nobel americano deriva il titolo, ci torna qui utile perché parrebbe anticipare, in un gioco di specchi, l’esperimento teatro-televisione ideato da Davide Livermore per la recente inaugurazione scaligera. Avere questo ben chiaro, dunque, cioè che ci si trova davanti a un ibrido, è premessa necessaria per potere comprendere i compromessi che ne derivano e per potere giudicare, ponendo nella giusta luce e senza preconcetti, gli esiti, che, nel nostro caso, sono quelli di una pellicola godibilissima, di grande gusto e raffinatezza. Certo Michieletto può non piacere, ma gli si riconosca tuttavia quel senso del teatro più profondo, connaturato nella antica radice stessa della parola: guardare con attenzione, contemplare. Il regista veneziano ha, si direbbe, una innata capacità di osservare e conseguentemente raccontare per immagini anche quando, forse, a quelle immagini sacrifica altro.
Ecco, dunque, un Gianni Schicchi che, pur ridisegnando il libretto di Forzano, riaccoglie in sé tutto ciò che pare al tempo stesso rigettare. Il rimprovero più spesso mosso ai registi modernisti è di trasporre le ambientazioni ai giorni nostri; ma con un colpo di genio Michieletto recupera i luoghi e il tempo originario dello Schicchi facendo del povero Buoso Donati un collezionista d’arte vissuto in una ricca villa medicea sui colli prospicienti Firenze. Il contrasto che ne scaturisce fra passato e presente si riflette in quello fra amore per l’Arte, vissuta come religione, e la grettezza dei parenti del defunto, interessati allo sterile hic et nunc del possesso materiale ed è accresciuto dal divario fra gli spazi e gli ambienti dell’antica villa, la natura toscana e il mondo moderno, pacchiano e vuoto, fatto di macchine, piscine, orologi e seni rifatti incarnato da Zita, Gherardo, Nella, Simone; un mondo di apparenze, capace di spogliare anche lo sguardo del piccolo Gherardino, indifferente alla bellezza che pure circonda lui e il suo vacuo parentado. La dicotomia è sottolineata dallo scenografo Paolo Fantin con raffinatissimo gusto cromatico e con frequenti allusioni alle composizioni di scene d’insieme e ritratti della pittura toscana rinascimentale: luci rosso cupo o pesanti verdi fanno da sfondo a primi piani grotteschi interpretandone i moti ora sanguigni ora livorosi degli animi. L’aggiunta iniziale di una lunga scena in cui Buoso – morto da poco – racconta la sua vita, il suo rapporto con i cugini, la sua stessa morte, affidata a un superlativo Giancarlo Giannini, fa da contraltare all’ultima scena dialogata creata da Puccini-Forzano, qui lievemente modificata e affidata nuovamente a Buoso invece che a Schicchi. Ciò che Michieletto aggiunge non altera nei fatti il testo originale: che Lauretta sia incinta di Rinuccio aggiunge umanità alla decisione che è costata a Schicchi, per bocca di Dante, la condanna all’Inferno; né questa umanità avrebbe forse potuto salvarlo agli occhi di un’etica rigorosa quale quella del Sommo Poeta. L’allusione, inoltre, a un’intesa fra il protagonista e il notaio, rende più credibile alle telecamere e ai nostri occhi un fatto che sembrerebbe serbare in sé molto di inverosimile. Michieletto è attento al minimo dettaglio che, per il suo anacronismo, potrebbe far vacillare tutta l’operazione: ecco che la preziosa mula, quella che vale trecento fiorini, si trasforma nei dettagli di un’automobile di lusso, mentre l’amore fra Rinuccio e Lauretta viene proiettato fra una dimensione di sogno stereotipato che addobba di palloncini la spoglia bellezza di una cappella medievale e una prospettiva piccolo borghese in cui i due e l’ormai nonno Gianni si godono la parte di eredità, con buona pace del fantasma di Buoso che approva chiudendo il film.
Come si è detto l’ibridazione opera-cinema comporta un netto cambio di ritmo narrativo che è forse l’aspetto più evidente dell’operazione e che si concretizza in una lettura musicale dall’agogica molto dilatata da cui, tuttavia, Stefano Montanari, alla guida dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, trae vantaggio per mettere in risalto le preziosità della scrittura pucciniana e la prodigalità di rimandi ritmici di cui la partitura è costellata. Difficile, tuttavia, dare un giudizio preciso sugli aspetti dinamici giacché l’orchestra sembra spesso posta in secondo piano rispetto alle voci che, invece, traggono tutte vantaggio dai microfoni per arricchire le rispettive interpretazioni di inflessioni che difficilmente, forse, potrebbero avere senso in una sala teatrale.
Tutto di buon livello appare il cast, sia sul versante della recitazione che su quello musicale, a partire dallo Schicchi di Roberto Frontali, in buona forma vocale, che sfrutta le possibilità offertegli dal canale cinematografico per creare con un gioco sottile di allusioni e mezzevoci un personaggio essenziale eppure variegato, deprivato di certa tradizione marcatamente caricaturale a cui il teatro ci ha abituati; meno motteggiatore, beffeggiatore e maggiormente fine, astuto. Vincenzo Costanzo fraseggia bene e con fresca baldanza giovanile la parte impervia di Rinuccio, ma la registrazione evidenzia un timbro non particolarmente accattivante; furbescamente ingenua la Lauretta a cui Federica Guida presta una bella voce di soprano lirico, ma la cui celeberrima e inflazionata “O mio babbino caro” scivola via troppo velocemente, quasi generica; ma è forse uno di quei momenti musicali sacrificati al linguaggio cinematografico. Eccellenti tutti gli altri membri, a partire dalla irresistibile Zita di Manuela Custer, al profondo Simone di Giacomo Prestia, alla superlativa espressività di Veronica Simeoni nella parte della Ciesca e ai preziosi Caterina Di Tonno Nella, Marcello Nardis, Gherardo, Guglielmo Angeloni, Gherardino, Roberto Maietta, Marco, Bruno Taddia, Betto, Matteo Peirone, Maestro Spinelloccio, Domenico Colaianni, Ser Amantio, Andrea Pellegrini, Pinellino, Gaetano Triscari, Guccio.