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Firenze, Teatro del Maggio – Don Carlo

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Nonostante i venti di sciopero, il Don Carlo che chiude il festival autunnale del Teatro del Maggio dedicato a Verdi e segna la riapertura della Sala Grande rinnovata anche nel palco, va in scena senza problemi davanti a una platea gremita di personalità del mondo operistico, anche per sancire la conclusione dei lavori che permettono di avere una struttura che è praticamente un unicum nel panorama nazionale con due sale operative.

Questo Don Carlo doveva essere sulla carta anche la consacrazione definitiva di Daniele Gatti sul palco fiorentino, e data la standing ovation finale si sarebbe portati a credere che sia così, ma questa volta la lettura del maestro milanese lascia qualche perplessità. In primis la scelta, già fatta alla Scala nel 2008, di andare in scena con la versione in quattro atti cosiddetta di Milano: quando ormai tutti i teatri più o meno importanti fanno di tutto per presentare la versione originale francese (non ultimo il Met nella scorsa stagione) o quanto meno quella modenese in cinque atti, come è successo a Napoli a inizio mese, la scelta di proporre questa versione, sicuramente più concisa, per un nuovo allestimento risulta assai poco al passo con i tempi, oltre a eliminare il vero fulcro drammatico dell’opera, cioè quel “Sì” pronunciato da Elisabetta a Fontainebleau in virtù della ragion di Stato che fa mettere in moto tutti gli ingranaggi del dramma.
Detto ciò, Gatti imprime all’opera una visione d’insieme sicuramente coerente: la sua è una profonda meditazione sulla vita e sulla morte, mettendo in risalto l’aspetto del rimpianto che anima tutti i personaggi. Sceglie tempi dilatati, che si serrano solo nella grande scena dell’Autodafé, resa con una carica barocca funerea di sicura presa, e mette così in risalto tutti i particolari della partitura, creando anche situazioni sonore in cui la musica stessa descrive le situazioni e l’ambiente della scena, come la Canzone del velo di Eboli resa con un sottofondo coloristico che sembra davvero creare un giardino spagnolo in piena fioritura. Non mancano poi le attenzioni nella differenziazione delle strofe dei vari numeri musicali e il corretto supporto ai cantanti, anche grazie al bel suono di un’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in discreta forma. Tuttavia questa compitazione musicale, eccelsa sotto i punti di vista menzionati, finisce per perdere spesso la ragione teatrale dell’opera, indugiando in azioni e pause che, in un tale mastodontico lavoro, avrebbero bisogno di progredire più speditamente oltre che respirare. Questo continuo indugio, a cui si aggiungono scelte interpretative discutibili in alcuni passaggi della partitura, finiscono per dare vita a una lettura più intellettualistica che teatralmente palpitante.

Certo è che a una direzione supportata da idee e tecnica fa fronte una regia ben più che deludente. Roberto Andò confeziona un Don Carlo classico, dicendo di voler lavorare sulla solitudine del potere, ma alla fine dei conti si vedono interpreti lasciati a loro stessi nelle solite pose di tradizione a vagare per il palco senza motivo apparente. Qualcosa di più interessante avviene nel duetto tra Filippo II e l’Inquisitore, con quest’ultimo di bianco vestito che nel corso del dialogo finisce per sedersi sul trono al posto del re, ma si tratta di un’idea carina in un mare di niente. La scenografia è principalmente fissa e ricorda certi lavori di Pizzi degli anni ‘70, ma Gianni Carluccio, che firma anche le luci, non fa nulla per valorizzare il suo impianto: i cambi luce sono ridotti all’osso e rendono tutto ancora più statico e poco accattivante. Ne risulta un allestimento che non dice niente di nuovo, ma che non fa neanche lo sforzo di appoggiarsi degnamente alla tradizione di un titolo che vanta ormai produzioni che hanno fatto la storia dell’opera.

Il cast si presenta invece alquanto discontinuo. Francesco Meli propone il suo collaudato protagonista e bisogna dire che ne esce tutto sommato bene. Il suo Carlo è più lirico e sognante che tormentato, e trova infatti i suoi momenti di elezione nelle oasi liriche, specie se la linea di canto insiste nella zona centrale del registro dove il tenore può dispiegare la sua voce ampia e di bel colore. Più problematiche risultano le salite all’acuto, soprattutto verso gli estremi della tessitura dove la voce tende a calare e a opacizzarsi.
Dominatrice della serata risulta Eleonora Buratto che propone per la prima volta in Europa la sua Elisabetta di Valois dopo averla debuttata al Met. La sua è una prova in crescendo: parte di rimessa ma arriva a un quarto atto dove sfoga una vocalità corposa, che spazia da un registro di petto ben gestito ad acuti svettanti, passando per i centri morbidi. Non è una fraseggiatrice fantasiosa  ma sa trovare momenti molto incisivi sia nel confronto con Eboli che nella grande aria e duetto finali, gestendo il tutto con una musicalità attenta in sintonia con il direttore.
Più problematiche le altre parti del cast. Mikhail Petrenko è un Filippo II che trova i giusti accenti nel registro centrale, specie quelli di uomo innamorato, ma che tende a sovra-interpretare e spingere in tutti gli altri momenti, risultando poco regale o non incisivo, anche a fronte di una vocalità non del tutto omogenea. Roman Burdenko è un Rodrigo che modula tutto il suo canto sul forte e mezzoforte, rinunciando totalmente all’aspetto insinunate del personaggio e limitandosi a dispiegare una voce ampia, con acuti vigorosi, e un fraseggio piuttosto generico. Ekaterina Semenchuk con questa Eboli non replica il successo della sua recente Azucena fiorentina. Lo strumento è ben proiettato e di buon volume ma risulta artefatto e ingrossato, andando a inficiare anche la dizione; se la Canzone del velo si distingue per le agilità ben sgranate, “O Don fatale” scorre via senza particolari emozioni. Alexander Vinogradov non è un Grande Inquisitore incisivo, né per vocalità, spesso troppo spinta, né per il  fraseggio convenzionale. Convincente risulta invece Evgeny Stavinskiy come Frate, cesellando con cura i suoi interventi di apertura e chiusura.
Chiudono il cast lo sbiadito Tebaldo di Nikoletta Hertsak, il corretto Conte di Lerma di Joseph Dahdah, impegnato anche come araldo reale, e la bella Voce dal Cielo di Benedetta Torre. Lodevole ancora una volta infine il Coro del Maggio Musicale preparato da Lorenzo Fratini, che riesce a imporsi anche nella acusticamente dispersiva sala grande.
Il nutrito pubblico decreta un buon successo finale con applausi per tutti e punte di entusiasmo per Buratto, Meli e Gatti, laddove si registra la mancata apparizione di Semenchuk alle chiamate finali.

Teatro del Maggio – Stagione 2022/2023
Festival d’Autunno dedicato a Giuseppe Verdi
DON CARLO
Opera in quattro atti
Libretto di Joseph Méry e Camille Du Locle,
traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Musica di Giuseppe Verdi

Filippo II Mikhail Petrenko
Don Carlo Francesco Meli
Rodrigo, Marchese di Posa Roman Burdenko
Il Grande Inquisitore Alexander Vinogradov
Un frate Evgeny Stavinskiy
Elisabetta di Valois Eleonora Buratto
Principessa Eboli Ekaterina Semenchuk
Tebaldo Nikoletta Hertsak
Conte di Lerma/un araldo reale Joseph Dahdah
Una voce dal cielo Benedetta Torre

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Roberto Andò
Regista collaboratore Boris Stetka
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video Luca Scarzella

Nuovo allestimento
Firenze, 27 dicembre 2022

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