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Firenze, Teatro del Maggio, Auditorium – Il trovatore

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Un “Festival Verdi”? “Avanguardia pura”. Questa semi-citazione pop da Il diavolo veste Prada ben si addice all’idea del sovrintendente Alexander Pereira di dividere la comune stagione del Teatro del Maggio in due festival, a modo delle vecchie stagioni autunnali e invernali. Pereira punta a trasformare Firenze in una città del festival permanente, in cui prevalgono le nuove produzioni o le riprese ben curate con cast e direttori di grido, così da attrarre pubblico da fuori città: un’idea favorita anche dalla nuova struttura dell’auditorium dedicato a Zubin Mehta e dalla Sala Grande, il cui palco sarà a breve fornito di una adeguata macchina scenica.

Iniziare questa turnazione con un festival dedicato a Giuseppe Verdi, per di più con titoli tutto sommato di repertorio come Trovatore, Ernani e Don Carlo può sembrare una scelta molto poco da festival, soprattutto se si svolge in contemporanea con la manifestazione ormai consolidata che Parma dedica al compositore. Nel saggio introduttivo del programma di sala, scritto da Alberto Mattioli, si cerca brillantemente una continuità tra questi titoli, che insieme possono andare a formare una “trilogia spagnola” data l’ambientazione delle tre opere. Tuttavia, se in Don Carlo e soprattutto in Ernani, lo sfondo iberico diventa quasi imprescindibile, ciò viene meno quando si parla di Trovatore. La Spagna di Verdi e Cammarano diventa mera sovrastruttura di colore esotico, così come lo era l’Italia per certi drammi di Shakespeare, più intento a scandagliare l’animo dei personaggi e le loro azioni piuttosto che a evocare fantasmagorici feuilleton tanto di moda all’epoca. Trovatore poi è tanto romantica nelle atmosfere e nelle passioni, quanto intellettuale nella sua struttura drammatica, così concentrata in lunghi racconti, pronta a interrompere il flusso narrativo proprio quando l’azione è sul punto di decollare. Tuttavia è curioso notare come, dal punto di vista scenico, le regie didascaliche sembrino appiattire tutto ciò a un mero romanzo in costume, mentre quelle più ardite finiscono per mettere troppa carne al fuoco, o forzare troppo la mano su certi aspetti.

Detto ciò, come si pone un regista come Cesare Lievi chiamato a firmare questo nuovo allestimento fiorentino a pochi anni dal precedente di Francesco Micheli (2018)? Lievi, che tanto aveva colpito per la freschezza del suo Cherubini a inizio anno, appare meno a suo agio con le strutture drammatiche verdiane. Tutto si ambienta in un Novecento non meglio definito in una stanza grigia (le scene sono di Luigi Perego), delimitata da pareti formate da assi di legno; quella di fondo si apre spesso come una porta da cui emergono le due streghe dell’antefatto, madre e figlia, e la coppia di fratelli da bambini. Sono visioni dapprima filtrate, che riaffiorano dalla memoria, ma che si fanno sempre più presenti e vive col procedere del dramma, trasformandosi in vere e proprie allucinazioni dei personaggi: il passato in quest’opera è talmente ingombrante da devastare le vite del presente e del futuro. Come già accadeva nell’allestimento di Roberto Catalano pensato per Sassari e approdato poi a Opera Lombardia, è impossibile rimuovere questi ricordi, perché sotto la cenere il fuoco della vendetta e della rovina continua a covare senza vie di uscita.
Una cornice quanto meno interessante e realizzata anche con perizia, ma in cui i personaggi si muovono, o meglio stanno fermi, prevalentemente come in un qualsiasi Trovatore di tradizione. Solo Fassi e Semenchuk mettono in campo una recitazione accurata, mentre gli altri protagonisti si dimostrano più generici, forse anche per colpa dello stesso regista, che ha meno idee per i loro personaggi. Basti vedere la scena quinta della parte terza tra Leonora e Manrico, una delle meglio risolte dello spettacolo: qui la regia non si basa solo sulle controscene nello sfondo, ma cerca di caratterizzare anche i sentimenti contrastanti dei due amanti. In sostanza, una regia grigia che funziona a metà, ma che certo non merita gli acuti dissensi ricevuti alla prima, considerato che negli anni si sono applaudite cose assai peggiori.

L’esito musicale risulta altalenante, a partire dalla direzione di Zubin Mehta che aveva già affrontato questo titolo a Firenze nei festival del 1990 e del 2001. Il direttore punta molto sulla cura del suono orchestrale, vero marchio di fabbrica, ma è apprezzabile anche la ricerca del particolare, spesso teso a sottolineare alcuni aspetti teatrali della scena, così come è intatta la capacità di tenere orchestra e palco insieme quando rischiano di andare ognuno per conto proprio. Tuttavia per Mehta Trovatore rimane un grande affresco, tutto notturni e magniloquenza, o almeno questo si evince dalla seconda parte della performance: la prima infatti è un insieme di tempi a tratti destabilizzanti, tra improvvise accelerazioni nei momenti più distesi e adagiamenti quando lo stesso dramma chiederebbe concitazione e movimento. Rimane come sempre l’ammirazione per un grande direttore, ma l’interpretazione di una tale opera ha fatto passi da gigante rispetto a questo tipo di letture (soprattutto se si tagliano i da capo delle cabalette). Emerge tuttavia con forza la prestazione di Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, entrambi in ottima forma: l’apertura così pomposa della parte terza è infatti veramente ben eseguita e degna di nota grazie alla compattezza e precisione delle compagini.

Il cast risulta di buon livello ma con qualche distinguo. Fabio Sartori è un Manrico ormai collaudato, caratterizzato dalla voce ampia, di bel timbro e dalla linea tutto sommato omogenea. Riesce a smorzare lo strumento nelle intimità di “Ah sì, ben mio”, ma anche a tenere anche le fila di “Di quella pira”, con tanto di acuto finale sicuro e brillante. Tuttavia, se il fraseggio risulta curato nei momenti più noti, è invece generico in buona parte dell’opera, e ciò, unito a una presenza scenica piuttosto statica, non aiuta a renderlo un protagonista memorabile.
La Leonora di María José Siri è dotata di un buon volume, ma sconta degli acuti non sempre perfettamente a fuoco, soprattutto verso la fine della recita. Sa come colpire il pubblico in “Tacea la notte placida” e “D’amor sull’ali rosee” eseguiti con varietà di sfumature e accenti, mentre apprezzabili risultano poi alcune intuizioni di fraseggio e un visibile impegno nella recitazione. Meno spiccata è la musicalità, in più sbaglia il primo attacco del “Miserere”, entrando in ritardo sul flusso della marcia funebre.
Amartuvshin Enkhbat come Conte di Luna conferma le impressioni avute altre volte: vocalità debordante, timbro di rara bellezza, linea estremamente omogenea e fraseggio attento in un canto nobile che ha ben pochi paragoni nel panorama nazionale e non. Manca come sempre l’intuizione profonda dell’interprete che faccia sobbalzare dalla sedia sul piano interpretativo, ma la sua rimane una prova rimarchevole, salutata infatti da giuste ovazioni alla fine.
Ekaterina Semenchuk risulta tuttavia la migliore in campo. Non disegna un personaggio inedito, ma la sua Azucena è sospesa tra l’insinuazione e la follia, senza degenerare nello stereotipo della strega. Colpiscono l’attenzione quasi maniacale al fraseggio e la presenza scenica, unite a uno strumento ampio dal timbro scuro, che ben affonda nei gravi, ma brilla anche in acuto, sempre piegato alle ragioni del dramma, e mai usato come mera belluria vocale.
Riccardo Fassi è un Ferrando scenicamente solidissimo e dalla apprezzabile vocalità, ampia e brunita. Risulta un po’ troppo monocorde in “Abbietta zingara”, non aiutato dalla direzione fin troppo spedita, ma spicca comunque nel complesso per il fraseggio attento e uno spiccato senso del ritmo. Ottimi risultano poi i comprimari, dalla Ines di Caterina Meldolesi che riesce a stare quasi al pari di Leonora per qualità musicali e vocali, così come il Ruiz ben cesellato di Alfonso Zambuto, o lo zingaro di Davide Piva.
Il titolo di repertorio riesce a riempire la sala dell’Auditorium e il pubblico nutrito si dimostra attento e assai partecipe con applausi a scena aperta dopo quasi tutti i numeri. Alla fine si registra un notevole successo per tutti, con vere ovazioni per Enkhbat e Mehta e molti applausi per gli altri interpreti, mentre il regista e il suo team vengono accolti da contestazioni.

Teatro del Maggio – Stagione 2022/223
Festival d’Autunno dedicato a Giuseppe Verdi
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi

Manrico Fabio Sartori
Il Conte di Luna Amartuvshin Enkhbat
Leonora María José Siri
Azucena Ekaterina Semenchuk
Ferrando Riccardo Fassi
Ines Caterina Meldolesi
Ruiz Alfonso Zambuto
Un vecchio zingaro Davide Piva
Un messo Joseph Dahdah

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro concertatore e direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Cesare Lievi
Scene e costumi Luigi Perego
Luci Luigi Saccomandi

Nuovo allestimento
Firenze, Auditorium Zubin Mehta, 29 settembre 2022

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