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Firenze, Teatro del Maggio, Auditorium – Ernani

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Inutile girarci intorno: Ernani è l’opera impetuosa per eccellenza. L’eroina qui è contesa non da due, ma ben tre spasimanti, in uno scontro su più livelli (giovani contro vecchi, nobiltà contro i regnanti) che vede le alleanze mutare a ogni passo tra giochi di erotismo e di potere. Alla fine, tuttavia, prevale il forte senso dell’onore, che porta il suicidio di Ernani ad assomigliare a quello di Cio-Cio-San, esponente anche lei di un mondo altro dove i valori etici fondanti non sono andati dispersi. La percezione del Giappone e della Spagna dell’Ottocento non sono infatti dissimili: l’uomo romantico che vagheggia il Medioevo vede questi luoghi remoti come vestigia viventi di un passato altrimenti scomparso; così il fanatismo al limite del religioso, le architetture bizzarre, i rapporti sociali quasi feudali della Spagna appaiono come la materializzazione di un sogno. Ecco perché l’Europa ottocentesca viene colpita da una “spagnolite” acuta che porta a cercare nella penisola iberica l’ambientazione di molti soggetti letterari, a partire proprio da quell’Hernani di Victor Hugo che fa furore nel 1830 alla Comédie-française, e che avrà altrettanto successo nell’adattamento verdiano di pochi anni successivo.

Fatta questa premessa, si può dire che l’idea di Leo Muscato per il nuovo allestimento di Ernani al Maggio Musicale Fiorentino risulta piuttosto interessante. Invece che nell’autunno del Medioevo spagnolo, Muscato sceglie di ambientare l’opera all’inizio dell’Ottocento, il vero autunno dell’Età moderna, ultimo periodo dove i codici etici mantengono ancora un forte ascendente sulle classi alte. Ecco dunque che Ernani diventa un membro della Carboneria, mentre gli altri personaggi hanno le loro divise con gradi e mostrine, esponenti di un mondo patriarcale e opprimente. Peccato che tutto ciò non venga pienamente sviluppato se non in alcuni momenti, come il finale in cui Elvira, invece di svenire dopo la morte di Ernani, rimane al proscenio a sfidare Silva in un misto di disperazione, orgoglio e timore. Tuttavia, questo rimane solo un episodio su due ore di spettacolo in cui gli interpreti stanno fondamentalmente fermi a snocciolare arie e pezzi di insieme come in un concerto in costume. Un po’ più movimentate sono le azioni del coro, che tuttavia spesso ripete gli stessi gesti per l’intero numero. Le belle luci di Alessandro Verazzi sono l’unica cosa che connota in qualche modo le scene di Federica Parolini, composte quasi esclusivamente da pareti mobili spoglie che si aprono e si chiudono per delineare i vari ambienti. Per concludere, si può parlare di un allestimento che si rivela una vera occasione sprecata.

James Conlon dirige per la prima volta questo titolo, mettendosi totalmente al servizio dei solisti, sostenendoli costantemente, sia nei tempi che nel volume. Riesce poi a ricavare dall’orchestra una vera e propria tinta verdiana che viene messa in evidenza soprattutto nel terzo atto, creando una pregevole atmosfera musicale, così come l’introduzione corale al quarto che è venata di reminiscenze spagnoleggianti. Mancano tuttavia una scelta più teatrale nelle agogiche (i numeri si rincorrono senza momenti di grande respiro), e una maggiore coesione con le compagini: se l’Orchestra non si dimostra compatta come in altre recenti occasioni, il Coro, preparato da Lorenzo Fratini, al netto di qualche sfasatura con la buca, mette in mostra un bel colore e fraseggio soprattutto nei due momenti più noti eseguiti dalla sezione maschile: l’iniziale “Evviva! Beviam! Beviam!” e “Si ridesti il Leon di Castiglia”.

Il cast è omogeneo ma non centratissimo. Francesco Meli è considerato un esponente di punta del ruolo del titolo, che ha ormai cantato in mezzo mondo. La voce è infatti ben espansa e di bel colore, anche se affetta da un vibrato largo evidente soprattutto quando sale nel registro acuto. Per quanto la sua esecuzione sia comunque rimarchevole, il canto così ben costruito di Meli lascia l’impressione che questo personaggio con il suo carico di autodistruzione pienamente romantico non sia totalmente nelle corde dell’interprete, più portato verso ruoli che si risolvono principalmente con la sola nobiltà della linea vocale.
María José Siri affronta il ruolo di Elvira con molta cautela. Non appare infatti vocalmente in forma, presentando acuti poveri di smalto e gravi un po’ artefatti. Nella cavatina iniziale, al netto di agilità un po’ spianate, sa comunque trovare una nota di sogno malinconico assai apprezzabile. Anche Roberto Frontali non è in perfetta forma vocale, come sembrerebbero indicare gli incidenti occorsi in due salite in acuto spezzatesi all’improvviso. Tuttavia tratteggia un Don Carlo nobile, in linea con la tradizione, grazie a una linea di canto ben tornita e a una discreta varietà di accenti, che gli permettono di connotare anche con una nota pensierosa l’aria “Oh de’ verd’anni miei”.
Vitalij Kowaljow è un Silva dotato di uno strumento di bel colore, non particolarmente scuro. Anche se la linea non è perfettamente omogenea e la dizione risulta un po’ arruffata, il basso disegna un personaggio credibile e tutto sommato ben eseguito. Ottimi i comprimari, in particolare lo Jago ben delineato da Davide Piva. Si distinguono anche Xenia Tziouvaras nel ruolo di Giovanna e Joseph Dahdah in quello di Don Riccardo.
La sala ben gremita tributa spesso applausi dopo i vari numeri, e sancisce un caldo successo a questo ritorno di Ernani sulle scene fiorentine dopo 60 anni, con punte di vero entusiasmo per Meli e Conlon.

Teatro del Maggio – Festival d’0Autunno 2022
ERNANI
Dramma lirico in quattro parti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Ernani Francesco Meli
Don Carlo Roberto Frontali
Don Ruy Gomez de Silva Vitalij Kowaljow
Elvira María José Siri
Giovanna Xenia Tziouvaras
Don Riccardo Joseph Dahdah
Jago Davide Piva

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore James Conlon
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi

Nuovo allestimento
Firenze, 10 novembre 2022

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