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Domenica all’opera: Rai5 trasmette Pagliacci dal Teatro Massimo di Palermo

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Nell’ambito delle celebrazioni per il venticinquennale della riapertura del Teatro Massimo di Palermo, Rai Cultura presenta Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, pietra miliare del Verismo in musica, in onda domenica 15 maggio alle ore 10.00 su Rai 5. L’allestimento è firmato da Lorenzo Mariani con il Maestro Alessandro D’Agostini sul podio. Nel cast Martin Muehle, Valeria Sepe, Amartuvshin Enkhbat, Elia Fabbian e Matteo Mezzaro. Proponiamo qui la recensione dello spettacolo a firma Giuseppe Montemagno.

Un sipario, poi un altro ancora. Tutto è finto, o forse tutto è vero in Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, pietra miliare del Verismo in musica con cui il Teatro Massimo di Palermo ha salutato l’arrivo dell’estate: un titolo di vasta eco, ripreso nel fortunato allestimento varato nel 2007 e portato in tournée anche in Finlandia e in Giappone. È uno spettacolo semplice, lineare eppure perfettamente riuscito, perché non elude i nodi dell’intricata drammaturgia del musicista partenopeo, ma li inquadra in maniera limpida, epurata, meta-teatrale, ormai lontana da quegli scampoli di realismo che appesantiscono solo l’intelligenza dell’opera. Lorenzo Mariani firma una regia esemplare, di grande eleganza ma anche di notevole impatto, fondata sulla luminosa scenografia di Maurizio Balò: che illustra una porzione di palcoscenico di un circo, ma anche, in senso lato, una frazione del mondo. È il luogo della finzione teatrale ma anche una metafisica piazza di paese, quasi una no man’s land in cui inestricabilmente s’intrecciano uno «squarcio di vita» e il «nido di memorie», storie di uomini e teatranti destinate a coincidere. Non c’è traccia, fortunatamente, né di Meridione né di fine Ottocento: la vicenda assume così contorni indefiniti, astratti, universali, che esaltano l’ordito del costrutto narrativo, anziché vincolarlo al contesto storico della creazione. Il regista italo-americano preferisce sottolineare il ruolo delle «antiche maschere», quasi fosse un canovaccio della Commedia dell’Arte nuovamente replicato, seppur con la significativa, violenta variante del finale. Per questo vivacizza l’azione grazie all’uso di costumi di preziosa fattura, volti a distinguere e separare i ruoli: da un lato gli attori, mimi d’instancabile leggerezza che volteggiano sulle colorate, fantasiose coreografie di Luciano Cannito (riprese da Luigi Neri); e dall’altro il coro di paesani, sobriamente in bianco e nero, nella sua duplice declinazione adulta e infantile, cui mirabilmente rispondono le compagini del teatro, preparate rispettivamente da Piero Monti e Salvatore Punturo. Mirabilmente trapunto, il Coro delle campane valorizza le falangi corali, alternando il sapore malinconico dell’arrivo degli zampognari alla spigliata freschezza della «festa di mezzagosto».

È un piacere, infatti, ascoltare Pagliacci in un’edizione che concede quanto basta alla fervida vena espressiva e all’effetto drammatico dell’opera, ma senza quel compiacimento che, per troppo tempo, ne ha segnato la storia dell’interpretazione. Alessandro D’Agostini – subentrato sul podio all’indisposto Daniel Oren, che si è limitato a dirigere le prime due recite – si mostra concertatore accorto e affidabile, attento al flusso narrativo e al rapporto tra buca e palcoscenico. Sbalza, certo, un ritratto a tinte forti del bozzetto calabrese, asseconda l’aperta cantabilità del materiale melodico, la vibrante tessitura sinfonica dell’opera, che emerge in tutta la sua dirompente carica espressiva nell’Intermezzo; ma evita di indulgere all’eccesso, presidia sonorità, tempi e dinamiche, assicura una lettura moderna e coinvolgente della partitura. Dispone, peraltro, di una distribuzione di ottimo profilo, che ne sostiene gli intenti.

Canio è Martin Muehle, tenore dallo squillo vigoroso, dalla potenza sostenuta, dal timbro fervido e caloroso. Non fosse per qualche disomogeneità nel passaggio di registro, che improvvisamente si opacizza, il tenore brasiliano delinea un personaggio credibile, accorato eppur misurato, stentoreo quando affronta quel «Ridi, Pagliaccio» in cui è lo stesso compositore a richiedere un canto «a piena voce» e «straziante». Gestisce con dedizione le emozioni del personaggio, soprattutto durante la recita finale, in cui lascia erompere una gelosia devastante. Al suo fianco, Valeria Sepe è una Nedda praticamente perfetta: la figura svelta e spensierata ha il fascino provocatorio e provocante della femme fatale di fine secolo, mentre la voce, delicatamente screziata, si rivela strumento duttile che perfettamente si sposa alle esigenze del ruolo. Prezioso è l’attacco della Ballatella con un trillo di grazia immacolata, delizioso virtuosismo che anticipa una vocalità sognante e aerea come il libero volo di uccelli, poeticamente evocato nel brano. Di forte impatto, infine, il Tonio di Amartuvshin Enkhbat, voce poderosa, ampia, muscolare, tutto costruito sullo splendore di un sontuoso mezzo vocale di straordinaria proiezione. È anche interprete accorto, sin dal Prologo, in cui sottolinea non solo la portata del testo, chiave di volta dell’intera drammaturgia, ma soprattutto quel gusto per l’arcata melodica della frase («Un nido di memorie», «triste» e «ben cantato», come prescritto dal musicista), che connota tanta parte del melodramma italiano coevo. Più sfocato è invece il Silvio di Elia Fabbian, vocalmente appannato. Nei panni di Arlecchino, Matteo Mezzaro impressiona già per l’affettuosa umanità con cui frena Canio, che ha appena scoperto il tradimento della moglie e vorrebbe scannarla, mentre lo spettacolo già incombe; e poi si conferma comprimario di lusso – e ormai pronto per una promozione sul campo – quando cesella una Serenata tutta giocata sul fiato, sulla lucentezza del registro acuto, su una linea di canto mirabilmente fondata sul legato: amante brioso e ironicamente appassionato, prima che la lama di un coltello tronchi l’azione, spezzando l’illusione della rappresentazione teatrale.

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