Il Teatro Colón di Buenos Aires è stata la mia seconda casa per quasi un ventennio. Ci andavo cinque volte la settimana e spesso anche nei weekend. A questo teatro devo quasi tutto di quel poco che sono arrivato a capire dei diversi generi della musica classica. Perciò ogni volta che ci torno e vi trovo un livello molto al di sotto di quanto ricordo (ho assistito a grandissimi eventi e ad altri che lo erano meno, non sto idealizzando il passato) mi arrabbio e mi deprimo – non so esattamente in quale ordine. È stato quindi con grande piacere che il 10 agosto scorso ho assistito a un Elisir d’amore che potrebbe figurare degnamente nel cartellone di qualsiasi grande teatro lirico internazionale e, a sua volta, essere degno di una grande tradizione che mai si sarebbe dovuta perdere. Il tutto esaurito e gli applausi entusiastici del pubblico erano più che giustificati. Che il sottoscritto non sia del tutto d’accordo con quest’accoglienza trionfale (bis del tenore compreso) non inficia il grande successo e il più che legittimo orgoglio di aver ritrovato una produzione che speriamo sia il segnale di una ripresa costante e non solo una fortunata parentesi.
Ecco dunque un nuovo allestimento del capolavoro donizettiano per la regia dello spagnolo Emilio Sagi. Siamo in una scuola dell’America profonda con ragazzi che giocano a pallavolo (tranne Nemorino che si limita ad andare – parecchio bene – in bicicletta) e ragazze che fanno le majorettes (con Adina corifea). Ovviamente qui Belcore e i suoi soldati non si sa bene che cosa facciano ed è più che normale che Dulcamara arrivi in un macchinone con tanto di clacson. Va da sé che molte situazioni non combaciano con le parole del libretto, che per lo meno non vengono cambiate o evitate nei sopratitoli, come sta diventando di moda in Europa. Ma non tutto è sbagliato o trascurabile, e la scena di Giannetta con il coro femminile è davvero riuscita (il pubblico che applaudiva appena poteva – e anche quando non doveva – si mostrava decisamente soddisfatto e almeno qui aveva ragione). Le scene adeguate di Enrique Bordolini e i bei costumi di Renata Schussheim assecondavano l’ottica della regia. Convenzionali le luci di José Luis Fiorruccio.
Il coro è stato sempre una colonna portante del Colón (è un dovere per me ricordare con emozione ed enorme gratitudine il lavoro di Tullio Boni e Romano Gandolfi) e lo ha dimostrato anche in questo caso, istruito da Miguel Martínez. L’orchestra da parte sua ha suonato bene, anche se gli archi mi sono sembrati alquanto opachi, forse anche perché la direzione di Evelino Pidò – qui nel suo repertorio d’elezione – solo nel secondo atto risultava davvero brillante, mentre l’introduzione e il grande duetto fra soprano e tenore dell’atto primo parevano piuttosto da opera seria o semiseria. Si notavano comunque una costante attenzione al palcoscenico e una concertazione equilibrata.
Javier Camarena, che al Colón aveva già tenuto un paio di concerti, è molto amato dal pubblico di Buenos Aires. Questa era la terza volta che vedevo e ascoltavo il suo Nemorino. Devo dire che sia a Barcellona che a Bergamo mi aveva convinto pienamente. Qui ho trovato gli acuti sempre belli e saldi, ma meno spontanei rispetto alle altre occasioni, e il volume mi è parso più contenuto. Intatte, invece, la naturale simpatia e l’ottima tecnica che gli ha consentito, nel bis di “Una furtiva lagrima” (finora i bis erano stati sempre rari al Colón e con richieste e applausi ben più lunghi e clamorosi che non in quest’occasione) di interpolare delle variazioni interessanti – non direi belle – e un sopracuto molto applaudito ma non adatto a questa romanza. Fin da “Quanto è bella” nessuno degli interventi del tenore messicano è passato in silenzio.
Dal mio punto di vista era forse più interessante Nadine Sierra, una Adina vivacissima ma incline a risatine che le consiglierei caldamente di rivedere e, per quanto possibile, di evitare. Confermatasi ottima cantante, pur con estremi acuti che tendono a diventare un po’ metallici e fissi, ha dato il meglio di sé nel corso di tutta la recita, ma naturalmente ha brillato nella grande aria e cabaletta finale, accolta da un autentico delirio di applausi: a voler essere giusti, anche lei avrebbe meritato il bis.
Ambrogio Maestri era Dulcamara. Direi un po’ svogliato e stranamente contenuto nella caratterizzazione (a parte un paio di caccole di tradizione), e in buona forma vocale dopo alcuni acuti tesi e scomodi nella grande aria di sortita “Udite, udite, o rustici”. Pure lui festeggiatissimo.
Considerato che tutti i teatri cercano di giocare al risparmio nei cast, avrei tanti nomi in mente per Belcore (perfino qualche locale) prima di quello di Alfredo Daza, un baritono discreto, dal timbro molto scuro ma che cambiava alquanto di colore a seconda dei registri e cresceva e vociferava che era un piacere in zona acuta. Di belcanto se n’è sentito poco. Molto applaudito. Giannetta era affidata logicamente a una cantante locale, ma Florencia Machado, peraltro molto spavalda, è un mezzosoprano e quindi poco adatta alla parte.
In qualche occasione i sopratitoli erano sbagliati o tradotti in modo poco felice: per esempio “bricconcella” veniva resa con “picarona” che non rende bene il senso. Sono dettagli forse, ma da non trascurare. Inoltre, un teatro come il Colón dovrebbe offrire anche la traduzione in inglese. Si è pure verificato il fatto – tremendo in un’ opera comica – che la gente ridesse nel leggere la traduzione quando la battuta non era ancora stata fatta. Pazienza.