Oggi non c’è soprano che non voglia misurarsi con la protagonista di Norma. Il che è comprensibile, ma in parecchi casi rischioso. È vero che ognuno ha la sua particolare idea di come dovrebbe essere una grande Norma e non ci sarà forza al mondo capace di fargli cambiare le sue convinzioni, dovesse anche comparire Bellini in persona a spiegarglielo. E qui entriamo nel regno di gusti e pareri che rendono oltremodo difficile una critica più o meno imparziale.
Per quanto mi riguarda, ecco i miei desiderata: un soprano lirico spinto o drammatico che canti bene, con agilità sufficiente (ma non fine a se stessa, né con sopracuti sparsi qua e là a piacere), con un’articolazione piuttosto chiara (e quindi niente colpi di glottide, gravi abissali e artefatti ), una tecnica ferrata, buona estensione e interpretazione non inerte ma nobile (la sacerdotessa che canta “Casta diva” poi non può essere per il resto dell’opera una furia scatenata). Devo dire che almeno tre volte, nella mia carriera di ascoltatore, sono uscito molto soddisfatto dal teatro.
Al Gran Teatre del Liceu si è presentata al pubblico Marina Rebeka e la sua prova è risultata convincente. Anche se l’artista si è svegliata con il bronzo d’Irminsul (raddoppiando anche il volume), la cantante è stata sempre di un’estrema musicalità, con un canto pulito e omogeneo, accolto con grande tripudio dal pubblico che gremiva la sala. Rebeka non è quel che si dice una “belcantista doc” (il suo repertorio è sconfinato e variopinto), ma ha il senso dello stile e la tecnica di cui la parte ha bisogno.
Riccardo Massi (Pollione) ha esibito mezzi importanti, che ancora non gestisce del tutto al meglio, e quindi più di una volta l’acuto è risultato rigido, cambiando colore e volume in confronto all’emissione negli altri registri. L’artista mi è parso volenteroso. All’Adalgisa di Varduhi Abrahamyan va riconosciuto il bel timbro e un canto nobile, anche se piuttosto monocorde. Qualche acuto poteva sembrare un po’ stiracchiato, ma bisognerebbe ricordare che il ruolo è anche di soprano. Nicolas Testé è stato un degno Oroveso. Oggi più basso-baritono che basso e al limite in zona acuta, non ha un fiume di voce, ma nondimeno si tratta di un elemento da tenere d’occhio. Molto adeguata la Clotilde di Núria Vilá, molto meno il Flavio di Néstor Losán.
Il coro preparato da Pablo Assante è uscito a testa alta del suo compito, malgrado qualche momento d’incertezza nel momento della sortita di Norma.
L’orchestra ha suonato correttamente, ma la bacchetta di Domingo Hindoyan, che mi era sembrata molto interessante nella Luisa Miller di quattro anni or sono, non ha sempre trovato, già a partire dalla celebre sinfonia, il tono giusto. La partitura è maestosa e le accelerazioni rischiano di avvicinarla alle sonorità bandistiche; in altri momenti gli archi appena si sentivano. E poi, purtroppo, non si trattava di una versione da concerto.
Lo spettacolo portava la firma dell’artista in residenza al Liceu, Àlex Ollé, che lo aveva ideato per Londra nel 2016, dove aveva destato molte perplessità. Anche qui, alla prima, non è stato proprio un trionfo. In scena, i romani restano tali, benché vestiti con completo e cravatta, ma i druidi diventano dei cristiani fondamentalisti, esponenti di una setta religioso-militare dove gli abiti “da cerimonia” sono quelli del Ku Klux Klan (anche la croce in fiamme nel finale fa pensare a quel “bel” movimento). Norma è ovviamente una vescova, o qualcosa del genere. Il palcoscenico, quasi vuoto, diventa una selva con tanti piccoli crocifissi intrecciati con una specie di lampadario sovrastante formato da altri crocifissi. Durante la preghiera di Norma, tutti (lei compresa) vengono incensati con un enorme turibolo, tipico delle grandi funzioni religiose, in particolare quelle associate in Spagna a San Giacomo. Fa eccezione la scena prima dell’atto secondo, che diventa un interno moderno sciccoso (non tutto di mio gusto, ma pazienza), con le signore che non indossano più abiti religiosi, ma elegantissimi completi con pantaloni. Il punto è che i due figli (il ragazzo molto più piccolo della sorella) purtroppo non dormono ma si addormentano solo un attimo: per il resto vediamo il bambino correre in bicicletta, poi entrambi davanti alla tivú a guardare cartoni animati, e così via fino alla fine del quadro, quando di nuovo il maschietto – forse iperattivo – si mette a saltellare come un canguro su un pon pon al ritmo di “Sì, fino all’ore estreme”. Se Norma l’avesse soppresso, avrei avuto per lei solo comprensione.
Ultima nota: come si sa (si sa?), il romanticismo accomunava amore e morte e il finale di Norma ne è un esempio lampante: i due protagonisti periscono tra le fiamme che li purificano e, con la morte, l’amore tra loro rinasce. Ebbene qui, contrariamente al libretto, solo Pollione si avvia al rogo. Oroveso, che ha accolto Clotilde e i bambini in pubblico davanti a tutti i druidi, in un gesto di compassione uccide Norma con una rivoltella (fino a quel momento si erano visti solo mitra, spade e pugnali). E come dice la Menegilda della zarzuela La Gran Via nel suo celebre tango: “Y punto final” (Qui la finiamo).