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Vienna, Wiener Staatsoper – Nabucco

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Per festeggiare gli 80 anni di Plácido Domingo, la Staatsoper di Vienna ha messo in scena (e trasmesso in streaming) il Nabucco di Verdi, riprendendo il noto allestimento del 2001 con la regia di Günter Krämer. Uno spettacolo che a suo tempo fece discutere, non privo di idee interessanti, ma non del tutto riuscito. Era l’epoca in cui andava di moda il minimalismo, che di lì a qualche anno, con la crisi finanziaria, sarebbe divenuto una necessità per tutti i teatri, costretti ad andare al risparmio e a cercare soluzioni alternative anche con i titoli più spettacolari.

Nel caso specifico, Nabucco – tipica opera da rappresentazione monumentale – viene allestito su un palcoscenico vuoto. Durante la sinfonia vediamo due bambine e due bambini che giocano: sono Abigaille e Fenena, Zaccaria e Ismaele. Già dai loro atteggiamenti ludici si intuiscono i tratti caratteriali e, in nuce, i conflitti che caratterizzeranno i loro rapporti. Krämer, in pratica, accantona sia il contesto biblico che la chiave di lettura risorgimentale e individua nella vicenda una dimensione privata e borghese cercando di collegarla a un dramma storico collettivo. Nel corso dell’opera, i costumi novecenteschi firmati da Falk Bauer chiariscono l’idea del regista di ricordare la tragedia dei pogrom, le sommosse popolari antisemite, senza tuttavia ricorrere ad abusate simbologie naziste. Nel quadro del “Va’ pensiero” i coristi, inizialmente distesi a terra come in un cimitero simbolico, tengono appoggiata al petto la fotografia in bianco e nero di una persona scomparsa, evocando le vittime di tanti stermini e il dolore della perdita in modo asciutto e struggente. Nondimeno, la fusione tra passioni intime e conflitti collettivi non convince: l’idea di portare la storia su un piano borghese e psicologico risulta posticcia e, infatti, dopo il siparietto iniziale non viene adeguatamente sviluppata. D’altra parte, non c’è molto da sviluppare o psicanalizzare in Nabucco: i personaggi del giovane Verdi hanno sì un loro ruvido spessore, ma sono pur sempre sbozzati psicologicamente con l’accetta. C’è da dire che Krämer, nel 2008, proprio partendo da questo allestimento, firmò per la Fenice di Venezia una messinscena di gran lunga più riuscita. Eliminato il siparietto borghese e altri dettagli superflui, riuscì a mettere a punto una regia acuta e di forte impatto drammatico, risolvendo la scenografia con un gioco straordinario di luci che, nei primi due atti, si estendeva a tutta la sala. I versi in aramaico della Torah scorrevano grazie a proiezioni laser lungo i fregi dorati dei palchi, trasformando la Fenice in una specie di installazione luminosa: un tempio della sapienza pronto a dissolversi quando in scena subentravano persecuzioni e massacri. Uno spettacolo, insomma, di grande effetto e, rispetto a questo viennese, maggiormente sintonizzato con la drammaturgia e la musica di Verdi.

Al suo debutto in Nabucco, Marco Armiliato dimostra ancora una volta di sapersi calare in modo adeguato nella realtà culturale del nostro melodramma ottocentesco. Pur rientrando nella più tipica tradizione italiana, la sua conduzione non ha una impronta barricadiera e risorgimentale. La concertazione, controllata anche nei dettagli, appare ben bilanciata e priva di enfasi negli slanci drammatici, mentre il cantabile fa pensare opportunamente a Donizetti. Energia e lirismo, furore e preghiera vengono messi a fuoco con la consapevolezza che Verdi, nel Nabucco, nonostante l’impulso ritmico e la sintesi drammatica, è un assimilatore più che un creatore di linguaggi. Armiliato è anche attento al rapporto con il palcoscenico: il taglio del “da capo” di qualche cabaletta, senz’altro poco filologico, si spiega con l’intenzione di favorire la tenuta vocale degli interpreti.

Su Plácido Domingo, ormai, si è costretti a ripetere sempre le stesse osservazioni. Da un lato, in rapporto all’età e ai 60 anni di carriera, si ammirano la tempra, la comunicativa, il carisma scenico (a dire il vero un po’ appannato in questa occasione), oltre a qualche sprazzo di calore timbrico che, nei cantabili, consente al cantante di mettere ancora in luce sfumature affettuose e ombreggiature ora drammatiche, ora nostalgiche. Dall’altro, però, la vocalità risulta affaticata, accorciata nei fiati, forzata negli acuti, di fatto estranea alla corda baritonale e ai requisiti richiesti dal ruolo di Nabucco. La dizione è non di rado confusa e l’incisività della parola scenica verdiana viene meno. I passi eroici e concitati risultano laboriosi e alla cabaletta dell’ultima parte dell’opera, “O prodi miei”, Domingo arriva praticamente stremato, tanto che è costretto a saltare intere frasi. Non siamo di fronte a un personaggio, ma a un grande protagonista della lirica che fa il verso a se stesso in un registro vocale che non gli appartiene e mai gli è appartenuto.

Abigaille è Anna Pirozzi, indubbiamente esperta e capace di uscire pressoché indenne dalle tremende difficoltà che questo ruolo presenta. Certo alcune emissioni un po’ schiarite e non molto consistenti del registro grave ci fanno capire che la cantante non è nata drammatico di agilità ma lo è divenuta partendo da una vocalità di soprano lirico. Tuttavia Pirozzi ha una estensione nel registro acuto, un temperamento e una grinta che le consentono di affrontare le arroventate iperboli del personaggio con sicurezza, restituendo inoltre con sottigliezza di fraseggio i momenti di abbandono e ripiegamento interiore.
Riccardo Zanellato interpreta Zaccaria con voce non imponente, ma stile e fraseggio appropriati a una parte da basso-cantante che è quasi un calco rossiniano, plasmata in particolare sul modello del Mosè. Nei panni di Ismaele si segnala per la vocalità rotonda e il fraseggio incisivo Freddie De Tommaso, mentre Szilvia Vörös tratteggia una Fenena corretta e di bella evidenza lirica. Il Coro della Wiener Staatsoper, infine, sostiene con buona compattezza e adeguata adesione stilistica il suo importante ruolo.
Lo spettacolo sarà nuovamente visibile sul sito del teatro (qui il link) il 28 gennaio alle ore 19.00

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