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Verona, Arena Opera Festival 2021 – Turandot

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Ormai è chiaro: gli allestimenti scenici non costituiscono l’attrattiva principale della stagione areniana in corso fino al 4 settembre. Si tratta di spettacoli tutti simili nell’impostazione, giocati sulla presenza di un imponente led wall sul quale scorrono le immagini – di volta in volta fornite da prestigiose istituzioni museali italiane – che suggeriscono l’ambientazione delle vicende. Non essendo ancora possibile un ritorno alla normalità, ci si deve accontentare di una soluzione in grado di conciliare un minimo di spettacolarità con le necessità del distanziamento fisico, la sicurezza, la funzionalità e anche il bisogno di contenere i costi, investendo magari un po’ di più sulla qualità dei cast. Ed è su questo fronte, infatti, che il 98° Opera Festival areniano offre gli stimoli maggiori. Da quando Cecilia Gasdia è sovrintendete e direttore artistico della Fondazione veronese, in Arena sono tornati i grandi nomi della lirica: divi internazionali si alternano con i più noti cantanti italiani, non solo alle “prime” ma nel corso di tutte le recite. Non sempre combinazioni e alchimie dei vari cast sono ottimali, com’è logico che sia, tuttavia il livello medio delle esecuzioni vocali è oggettivamente cresciuto e non si respira quell’aria di routine che circolava in Arena fino a qualche stagione fa.

L’ultima opera in cartellone, Turandot, ha visto il debutto italiano nel ruolo del titolo della diva per antonomasia dei nostri giorni: Anna Netrebko. Nel confrontarsi con una parte impervia come poche, dalla vocalità drammaticamente tesa e spigolosa, il soprano russo dimostra di avere tutti i numeri necessari per uscirne vincente: estensione, potenza, capacità di costruire frasi che salgono nel registro alto con omogeneità di timbro ed emissione, sfociando in acuti saldi e di notevole forza propulsiva. Nondimeno, a colpire in questa occasione non sono i decibel, anche perché la strapotenza vocale di una Dimitrova, che dall’alto degli spalti areniani sovrastava tutto e tutti come una canna d’organo (senza amplificazione), resta difficilmente eguagliabile. La Turandot di Netrebko, insomma, non si impone unicamente “di forza”. Anche se a tratti ne sottolinea con incisività il volto feroce e spietato (i consueti suoni artefatti nei gravi questa volta non pesano più di tanto e vengono anzi piegati a fini espressivi), il soprano russo tratteggia un personaggio più sfaccettato rispetto a certa tradizione interpretativa. Di qui una Principessa capace di infondere un’espressione dolente e malinconica alla prima parte di “In questa reggia”, di conciliare l’altisonanza vocale con un gioco più sottile e sfumato di colori e dettagli nella scena degli enigmi. Inoltre, al momento dello “sgelo”, Netrebko coglie anche il lirismo della donna innamorata attraverso un canto addolcito e sempre controllato dal punto di vista espressivo. Il risultato è una Turandot forse non innovativa o storica, ma senz’altro a tutto tondo, mai risolta in chiave esteriore, e attenta ai fraseggi lucidi e analitici propri dell’ultimo Puccini.

Nessun rischio di monocromia espressiva anche nel caso Yusif Eyvazov. Il suo Calaf è un continuo trascolorare da inflessioni intime e liriche a slanci passionali e drammatici. Riesce a toccare la corda eroica grazie alla sicurezza del registro acuto che gli consente di adottare la variante alta di “Ti voglio tutta ardente d’amor” e di concludere tra le acclamazioni “Nessun dorma” con un Si naturale a perdifiato come raramente capita di sentire dal vivo. Altrettanto rara la capacità dimostrata dal tenore azero di imprimere alla celeberrima aria del terzo atto il carattere estatico che le compete: la fluidità della linea vocale, il senso del canto sfumato, la nitidezza della dizione, l’accento sempre giusto lo portano a dare vita a un personaggio tra l’araldico e il fiabesco, mosso da vera passione amorosa.

Con la sua voce chiara e leggera, Ruth Iniesta incorre in emissioni non sempre fermissime nel registro centrale, ma nel complesso canta correttamente, nel rispetto dei segni d’espressione prescritti, con un fraseggio vario e sfumato, anche se un tantino calligrafico: la sua Liù scarseggia infatti di pathos, accento partecipe e autentico senso del patetismo. Timur è invece Riccardo Fassi, uno dei migliori bassi cantanti in circolazione, dotato di una vocalità ben timbrata, agile, ineccepibile nella fonazione. Certo la figura del vecchio re tartaro, cieco e affaticato, non consente al giovane interprete di emergere più di tanto: altri sono i ruoli e i repertori a lui congeniali. Nondimeno, il personaggio risulta credibile per la dolente malinconia dell’accento e la morbidezza dell’emissione. Quanto alle tre Maschere, Alexey Lavrov è un Ping forzato e timbricamente opaco, mentre si fanno valere Marcello Nardis, Pong, e Francesco Pittari, Pang. Autorevole il Mandarino di Viktor Shevchenko, inappuntabile l’Imperatore Altoum di Carlo Bosi. Bene come sempre il coro preparato da Vito Lombardi e apprezzabili gli interventi del Coro di voci bianche A.d’A.MUS diretto da Marco Tonini.

Difficile dire quale sia la linea interpretativa adottata sul podio da Jader Bignamini, sempre ammesso che il direttore ne abbia in mente una. A maggior ragione perché l’ascolto dell’orchestra in Arena varia ogni sera a seconda di come viene gestita l’amplificazione (quest’anno davvero problematica) e anche del posto in cui ci si trova seduti ad ascoltare. In questa Turandot a volte si ha la sensazione di iperboli sonore e deflagrazioni eccessive, di una lettura accidentata, tagliente, che sembra voler esaltare lo spirito a tratti barbarico e feroce della partitura pucciniana. In altri momenti, i tempi sono invece molto lenti, quasi estenuati, il suono si fa morbidissimo e il direttore sembra piegarsi più che altro alle esigenze delle voci più liriche e leggere. Resta la sensazione di pannelli sonori staccati, in qualche caso anche suggestivi, ma slegati uno dall’altro, privi di collante e di un’atmosfera unitaria. Se si aggiungono le solite difficoltà a mantenere la sintonia con il coro collocato sulle gradinate di sinistra, alla fine il bilancio è più che discutibile.

Quanto allo spettacolo, come si diceva all’inizio, bisogna accontentarsi. Sullo schermo scorrono questa volta le riproduzioni di disegni e pitture provenienti dal Museo d’arte cinese ed etnografico di Parma. Immagini suggestive che, unitamente a pochi altri elementi scenici e ai costumi provenienti dai magazzini della Fondazione, danno all’allestimento un’impronta molto tradizionale. La regia, a cura delle maestranze areniane, si limita a un lavoro convenzionale, ispirato alle produzioni delle passate stagioni veronesi, e in particolare a quella spettacolare di Franco Zeffirelli.
Pubblico numeroso e grandi applausi. Acclamazioni per Netrebko, Eyvazov e Iniesta.

Arena di Verona – 98° Opera Festival 2021
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini

Turandot Anna Netrebko
Imperatore Altoum Carlo Bosi
Timur Riccardo Fassi
Calaf Yusif Eyvazov
Liù Ruth Iniesta
Ping Alexey Lavrov
Pong Marcello Nardis
Pang Francesco Pittari
Mandarino Victor Shevchenko
Principe di Persia Riccardo Rados
Due ancelle Emanuela Schenale, Alessandra Andreetti

Orchestra, Coro, Ballo e Tecnici dell’Arena di Verona
Coro di voci bianche A.d’A.MUS diretto da Marco Tonini
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona
Video design e scenografie digitali D-WOK
Verona, 29 luglio 2021

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